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L’architettura di Green Pea sceglie l’ecocompatibilità e i materiali di recupero
Legno, acciaio, vetro e poi verde e luce naturale: l’edificio di Green Pea è un esempio di come l’architettura possa contribuire alla sostenibilità. Intervista ai progettisti.
A Green Pea ogni angolo ha qualcosa da raccontare. A partire dalla sua ubicazione: il green retail park inaugurato lo scorso dicembre, di 15 mila metri quadrati e composto da quattro piani di negozio e uno di ozio creativo, sorge al Lingotto, area che ha da sempre incarnato la Torino operaia, quella della Fiat e dei ferrovieri.
Oggi che la sostenibilità bussa alle nostre porte, anche il Lingotto ha iniziato la sua trasformazione, accogliendo uno degli edifici di più green d’Italia. Abbiamo intervistato Carlo Grometto e Cristiana Catino, gli architetti protagonisti di questa evoluzione. Già progettisti del primo Eataly – che aperto le sue porte nel 2007 e si trova proprio vicino a Green Pea – i due professionisti hanno concepito un edificio “manifesto”, costruito con nuove tecnologie e materiali naturali per trasmettere, attraverso l’architettura, l’idea di rispetto dell’ambiente e armonia con la natura.
Partiamo dall’inizio: l’idea di Green Pea vi viene raccontata da Oscar Farinetti circa 10 anni fa, a tre anni dall’inaugurazione di Eataly. Qual era l’idea?
Carlo Grometto (CG): Diciamo che dieci anni fa ha avuto inizio la prima fase di tipo urbanistico, in cui abbiamo definito le regole del gioco attraverso lo strumento esecutivo, strumento che sta tra la componente progettuale e quella edilizia. Abbiamo deciso altezza, volumetria, dimensioni, caratteristiche estetiche. Dieci anni fa, quando Oscar Farinetti ci disse “lavorate su quest’area”, ci raccontò come la sua vita imprenditoriale fosse iniziata con gli elettrodomestici, proseguita con il cibo e che sarebbe confluita con i beni durevoli. Ci disse che voleva porre attenzione agli aspetti della sostenibilità, in quanto, sempre secondo Farinetti, le imprese che non si fossero convertite sarebbero state tagliate fuori dal mercato. Una previsione lungimirante la sua.
Cristiana Catino (CC): Con Eataly si era inaugurato un format di acquisto immersivo, esperienziale, comunicativo. In poche parole, un commercio portatore di valori. Con Green Pea si è voluta ripetere questa idea di formato commerciale improntato al coinvolgimento dell’utente e a un’esperienza in cui i fruitori condividano i valori dei beni acquistati. L’edificio di Green Pea, in questo senso, è l’evoluzione di Eataly.
E come fa la struttura che avete progettato a veicolare tutti questi messaggi?
CG: L’edificio non doveva essere solo sostenibile ma anche comunicare sostenibilità. Un edificio che avesse anche un intento educativo, pedagogico potremmo dire. Esistono tanti edifici sostenibili ma che comunicano poco. Se faccio un cubo con delle finestre piccoline magari sono stato virtuoso dal punto di vista dell’efficienza ma non sto comunicando sostenibilità. Invece qui abbiamo disseminato la struttura di elementi che la raccontano. Partiamo dall’ingresso, dove c’è una pala eolica: sappiamo che a Torino ci sono pochi giorni di vento l’anno, ma è comunicativa per chi entra a Green Pea. Così come i pannelli piezoelettrici all’ingresso di ciascun piano: camminare sopra questi pannelli non produrrà l’energia necessaria per alimentare la struttura ma è funzionale alla comunicazione. Al di là di quelli comunicativi, abbiamo gli elementi di contenuto: un impianto geotermico con tre pozzi di falda e pompa di calore, pannelli fotovoltaici sui parcheggi e sulle lamelle del rivestimento esterno. Il fabbisogno energetico è soddisfatto all’80 per cento da fonti rinnovabili. Ma se contiamo che il resto dell’energia è fornito in parte attraverso teleriscaldamento e in parte tramite un fornitore che utilizza beni rinnovabili, possiamo affermare che la struttura sia carbon free. Tra l’altro l’edificio ha ottenuto un punteggio di 3,5 su 5 del protocollo Itaca per la sostenibilità ambientale, un risultato davvero molto elevato per un edificio commerciale.
CC: L’architettura vuole essere un simbolo del brand che rappresenta e in questo caso abbiamo puntato su una struttura altamente sostenibile, da una parte grazie alle innovazioni dell’edilizia, utilizzando materiali che a fine vita potessero essere riutilizzati – legno, vetro e acciaio – e dall’altra con complementi come gli alberi. La copertura è composta da lamelle in legno termo-trattate – ovvero legno che ha subito un processo di disidratazione in modo che non patisca le intemperie e quindi evitando l’uso di resine non naturali – e irrigidite da un’anima metallica, realizzate con legno di abete recuperato dalle foreste della trentina Val di Fiemme e del Bellunese, distrutte dalla tempesta Vaia dell’ottobre 2018. È stata una grande intuizione di Farinetti perché ha saputo cogliere una tragedia per raccontare una storia di successo ambientale.
Si può dire che sia un edificio resiliente…
CG: Non solo. Questo edificio è costruito quasi interamente a secco, il che significa che i materiali di cui è costituito possono essere riciclati a fine vita. C’è l’acciaio, un metallo riciclabile, senza saldature e con bulloni a vista: questo stile low-tech, oltre a permettere lo smontaggio pezzo pezzo della struttura, richiama alla memoria anche lo stile ferroviario ottocentesco che si sposa con la retorica progettuale del distretto industriale in cui è calata al struttura. Le murature perimetrali sono costruite in blocchi di legno prefabbricato, senza collanti, mentre le pareti interne sono in fibrogesso. Meno del 5 per cento della struttura vede la presenza di calcestruzzo armato e si tratta della parte relativa alle scale di sicurezza.
Due punti cardine della struttura riguardano la luce degli interni e il verde, non è così?
CC: Negli interni abbiamo adottato un concept semplice e chiaro in grado di coinvolge tutti i sensi. Il layout dei vari piani si presenta con spazi flessibili e un’immediata riconoscibilità dei percorsi, grazie all’accoglienza della luce naturale, diffusa grazie alle enormi vetrate e al verde esterno. Negli interni si ritrovano materiali tradizionali come calce naturale e legno combinati a materiali di lusso come pelle e velluti. I parquet sono realizzati con legno già abbattuto e recuperato lungo i letti dei fiumi della valle Stura, in provincia di Cuneo. Per le tinteggiature è stata usata una vernice che neutralizza gli agenti inquinanti, previene la crescita di muffe e microbi ed elimina i germi. E poi la vegetazione, non usata in senso mimetico ma organico: attraverso la trama delle facciate in legno si inserisce il verde, selezionato con cura in modo da essere idoneo al microclima delle diverse facciate dell’edificio, privilegiando piante autoctone e flora italiana. Infine, gli ambienti naturali che partono dal basamento dell’edificio si incontrano nella copertura, il grande tetto giardino attrezzato, caratterizzato da una serra bioclimatica che diventa la “quinta facciata” di Green Pea.
La quinta facciata che ospita sala massaggi, vasche idromassaggio, piscina a sbalzo. Una moderna acropoli…
CG: Nel racconto di Farinetti abbiamo quattro piani di negozio e un piano di ozio. Più si sale e più si va verso il loisir: d’altronde il negozio è la negazione dell’ozio, se ci pensate. Il quarto piano è stato pensato come il passaggio dalla vendita al dettaglio alla “somministrazione”, che prelude alla terrazza dove c’è l’ozio nella sua massima rappresentazione. Un ozio che aiuta a pensare: Farinetti, appunto, racconta come nell’Atene del 300 a.C. si fosse sviluppata la base della cultura occidentale. Mentre centomila ateniesi lavoravano sotto, sopra i filosofi pensavano e gettavano le basi della cultura che ancora ci caratterizza. Come l’acropoli, la terrazza di Green Pea si affaccia sulle colline da una parte e sulla montagna dall’altra, due simboli della città di Torino. E sotto l’ex area industriale, la reminiscenza da cui proviene la città. Sulla terrazza la pelle esterna dell’edificio si ripiega su se stessa e, come un guscio perimetrale, dà protezione all’interno.
L’edificio di Green Pea sorge all’interno di un quartiere vocato all’industrializzazione, l’anima operaia di Torino: il Lingotto. Come è stato gestito il rapporto con l’area circostante?
CG: L’area del Lingotto non è mai stata parte della città tradizionale, perché vocata all’industria. Attraverso il progetto abbiamo avuto l’occasione di lavorare su una zona di città “vergine”, in modo non convenzionale, immaginandoci una parte di città che dialogasse con la natura. L’abbiamo immaginata come una macroarea ricoperta da un grande prato verde, che poi abbiamo estruso creando un grande corpo di fabbrica omogeneo con delle pareti perimetrali in legno e un tetto a giardino. Green Pea è uno di questi blocchi.
CC: L’inserimento urbanistico è stato fondamentale. In questa parte della città, pesantemente industrializzata nel corso del Novecento, il verde è tornato a giocare un ruolo e a intrecciarsi con il tessuto urbano. L’abbiamo immaginato come una piazza pedonale, agorà di vita e passaggio.
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