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Annunciata l’area di libero scambio africana, un mercato unico per 44 paesi
L’area di libero scambio africana, sancita a fine marzo, promette di ridare slancio all’economia. Ma il cammino è ancora lungo e c’è chi esprime scetticismo
Nelle ultime settimane, il tema degli scambi internazionali è tornato di stretta attualità. Mentre gli Usa di Donald Trump e la Cina di Xi Jinping si sfidano in una guerra (più politica che commerciale) a colpi di dazi doganali, dall’altra parte del mondo arriva un segnale di carattere totalmente opposto. È stata infatti annunciata l’area di libero scambio africana (African Continental Free Trade Area, AfCFTA), la più grande al mondo dopo l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc o Wto, dalla denominazione inglese).
Highlights: #AfCFTA is here! #AfCFTA2018 @SongweVera @PaulKagame @AUC_MoussaFaki @AUTradeIndustry @IssoufouMhm @ECA_SRO_EA @ATPC2 @snkaringi @ECA_SROWA #trade #Kigali @_AfricanUnion pic.twitter.com/8MbewvofJn
— ECA (@ECA_OFFICIAL) 28 marzo 2018
Cos’è l’area di libero scambio africana e a cosa serve
A fine marzo a Kibali, in Ruanda, i leader di 44 paesi africani hanno siglato un accordo ufficiale per creare un mercato unico per beni e servizi, che dia la piena libertà di movimento e investimenti. Secondo le stime, l’area di libero scambio africana arriverà a includere 1,7 miliardi di persone entro il 2030, per un volume d’affari complessivo pari a 6.700 miliardi di dollari. Ad oggi, solo il 20 per cento dei commerci del Continente avviene tra stato e stato. Come riportato da The Conversation, l’auspicio è che quest’accordo inneschi un circolo virtuoso, capace di liberare le economie africane dalla loro dipendenza da attività poco produttive e qualificanti e, viceversa, favorire l’industria e i servizi, creando posti di lavoro più qualificati (e quindi meglio retribuiti). Si spera anche che gli scambi commerciali aiutino una distensione delle relazioni politiche e diplomatiche. Attenzione, però: come sottolinea l’articolo di The Conversation, lo sviluppo economico non piove dal cielo da un giorno all’altro. Serve la precisa volontà politica da parte dei governi, che devono creare le condizioni per favorire la competitività dei prodotti e servizi dei propri territori. Non a caso, gli analisti già prevedono che l’area di libero scambio abbia ripercussioni positive soprattutto per quelle economie già molto diversificate al proprio interno.
Il cammino è ancora lungo (e la Nigeria dice no)
Gli intenti dei promotori, insomma, sono ambiziosi. Ma realizzarli non è facile. Innanzitutto, la firma è soltanto il primo passo di un lungo iter che prevede ancora la ratifica da parte di 22 paesi. Il presidente del Niger Issoufou Mahamadou, uno dei più entusiasti sostenitori del progetto, mira a concludere il processo di ratifica entro il mese di gennaio del prossimo anno.
Insomma, per ora siamo a un livello poco più avanzato rispetto a una dichiarazione d’intenti. Come se non bastasse, l’area di libero scambio africana (per quanto vasta) non ha ancora messo d’accordo tutti. Per la precisione, hanno aderito 44 stati su 55. Tra gli assenti illustri, due delle più importanti economia del Continente: Sudafrica e Nigeria.
Se la prima dichiara di voler soltanto prendere tempo in attesa che vengano finalizzati alcuni aspetti, la seconda si è tirata indietro all’ultimo momento, dopo essersi fatta promotrice degli accordi di libero scambio a più riprese negli ultimi decenni. “Non daremo la nostra adesione ad alcun accordo che metta in difficoltà le aziende e gli imprenditori locali, o che possa portare la Nigeria a diventare una discarica per i prodotti finiti”. Queste le parole con cui il presidente nigeriano Muhammadu Buhari ha spiegato su Twitter il proprio forfait al summit di Kibali. A convincerlo, pare, alcune opposizioni interne manifestatesi in ambienti imprenditoriali e sindacali.
Senza dubbio si tratta di un grosso passo indietro per l’accordo, poiché la Nigeria è uno degli stati più popolosi (con 196 milioni di persone, sugli 1,1 miliardi del Continente) e più importanti a livello economico.
President @MBuhari: We will not agree to anything that will undermine local manufacturers and entrepreneurs, or that may lead to #Nigeria becoming a dumping ground for finished goods. #AfCFTA
— Presidency Nigeria (@NGRPresident) 21 marzo 2018
Come sta l’economia africana in questo momento
Il Trade and Development Report 2017 dell’Unctad (Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo) fa un quadro in chiaroscuro dell’economia dell’Africa in questi ultimi anni. Con il calo dei prezzi del petrolio e la fine del boom delle materie prime, la crescita economica è passata dal 3 per cento del 2015 all’1,5 per cento del 2016, per poi risollevarsi leggermente nel 2017.
Ma dietro queste medie, in realtà, si celano grosse differenze. Secondo i dati diffusi dal Fondo monetario internazionale, ad esempio, nel 2017 il pil in termini reali è cresciuto dell’8,5 per cento in Etiopia, del 6,8 per cento in Senegal e del 6,5 per cento in Tanzania; numeri molto diversi rispetto a quelli di Algeria (+1,5 per cento), Ciad (+0,6 per cento) e Namibia (+0,8 per cento). Molto in difficoltà sono ad esempio gli stati che dipendono in modo strutturale da un ristretto numero di materie prime. Un caso estremo – continua l’Unctad – è proprio la Nigeria, dove petrolio e gas rappresentano poco più di un terzo del pil e oltre il 90 per cento delle entrate da esportazioni.
Le condizioni di vita della popolazione, in vaste aree del Continente, rimangono estremamente critiche. E la fame è ancora un tema drammaticamente attuale. A livello globale sono stati fatti degli enormi passi avanti negli ultimi 15 anni (la percentuale di popolazione denutrita è passata dal 15 all’11 per cento degli abitanti del Pianeta). Tuttavia, siamo ancora ben lontani dal raggiungere il secondo degli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (Sdgs), che prevede di porre fine alla malnutrizione entro il 2030. Secondo alcuni studi pubblicati da Nature, nessuno dei 54 Stati africani riuscirà a realizzare questo traguardo.
Foto in apertura: Muhammadu Buhari, presidente della Nigeria © U.S. Department of State
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