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Armi chimiche: malattie e ambiente avvelenato
La guerra del Golfo continua a mietere vittime. Le armi biologiche americane impiegate nel conflitto hanno avuto effetti devastanti sui soldati e sull’ambiente.
Recentemente una commissione di medici militari ha stabilito
ufficialmente che esiste la “Sindrome dei Balcani”, in quanto 143
militari italiani su almeno 5.000 del contingente si sono ammalati
perché venuti in contatto con l’uranio impoverito usato
dalla NATO per i cosiddetti “bombardamenti umanitari” nella ex
Jugoslavia. I bombardamenti sono avvenuti nell’estate del 1994 e
1995. In queste due occasioni solo i cannoni anticarro degli aerei
americani A-10 hanno esploso più di diecimila proiettili
radioattivi, contenenti cosiddetto uranio impoverito. Con le
esplosioni l’uranio degli ordigni viene sparso in forma di
pulviscolo, con la conseguente emissione di raggi alfa che durano
circa 6 mesi e sono fortemente carcinogeniche.
Già nella prima guerra contro l’Iraq si parlava di Sindrome
del Golfo. Allora un mix di armi radioattive usate dalla NATO, di
armi chimiche (vendute all’Iraq sino a poco prima dalle stesse
nazioni occidentali), e di armi biologiche hanno avuto effetti
devastanti sui soldati di ambedue le parti. Solo poche settimane fa
il direttore dell’ospedale Mansour di Bagdad ha raccontato
all’agenzia Reuters che in Iraq l’incidenza di cancro oggi
è aumentato da 5 a sette volte rispetto il periodo prima
della guerra del 1991.
Dall’altra parte sono morti più di 10.000 soldati americani
per gli effetti della sindrome, inoltre è diventata causa di
gravi malattie e deformazioni congenite nei loro figli.
Pesantissime per l’ambiente e la salute delle persone si è
rivelata la strategia bellica usata dagli Stati Uniti nella guerra
del Vietnam dove nel corso dei bombardamenti aerei hanno sganciato
120 kg di esplosivo per ogni essere vivente. Fra queste, 285
milioni di bombe a grappolo, il cui alto tasso di inesplosione le
rende simili a mine antiuomo. Particolarmente devastante si
è rivelato l’uso massiccio del napalm e dei defoglianti, fra
cui l’agent orange (agente arancione). Il napalm era stato
precedentemente impiegato in Giappone, dove aveva fatto più
vittime delle due bombe atomiche, e i defoglianti sono altamente
cancerogeni per la presenza di diossina.
Questi tre tipi di armi furono sistematicamente impiegate dagli
americani contro villaggi, foreste e campi coltivati. Quando la
guerra era ormai persa ed erano già iniziati i ritiri delle
truppe di terra e le trattative per gli accordi di pace, i
bombardamenti vennero intensificati e proseguiti ancora per anni.
Le conseguenze a lungo termine sono una devastazione ambientale
spaventosa, causata soprattutto dai 200 litri di defoglianti per
ettaro irrorati in media sul paese. Oltre le malformazioni
congenite i vietnamesi si ritrovano ancora oggi con un ambiente
invivibile: in certe regioni l’inquinamento da diossina è
ancora altissimo, le piante non riescono a crescere bene, i bambini
si intossicano camminando a piedi scalzi sulla terra inquinata e
l’età media della gente è di un terzo inferiore alla
media nazionale.
Ma l’agent orange ha fatto vittime anche fra gli stessi soldati
americani, che si sono ammalati di diverse forme tumorali.
Altissimo anche il numero dei loro figli nati con malformazioni
congenite. Dopo una lunga lotta legale le industrie chimiche
produttrici dell’agent orange hanno patteggiato nel 1984 un
rimborso con i reduci, 50.000 dei quali hanno visto riconosciuta
ufficialmente la dipendenza della propria malattia dalla
contaminazione chimica. Solo nel 1997 sono stati riconosciuti dei
risarcimenti anche per le più gravi malformazioni dei loro
figli. La popolazione del Vietnam non è stata risarcita per
danni sulla salute e sull’ambiente.
Rita Imwinkelried
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