
Mai si erano verificati incendi così gravi in Corea del Sud. Bruciati oltre 35.800 ettari, mobilitato l’esercito. Migliaia di persone evacuate.
Secondo la narrazione del Cremlino, il nuovo conflitto è un chiaro esempio del fallimento della politica degli Stati Uniti in Medio Oriente.
All’alba del 7 ottobre i militanti palestinesi di Hamas hanno lanciato un attacco armato senza precedenti contro Israele. Il 7 ottobre è stato anche il compleanno del presidente russo Vladimir Putin. E c’è chi è pronto a scommettere che il capo del Cremlino non potesse ricevere un regalo migliore: con lo scoppio di questo nuovo conflitto l’attenzione della Nato, del mondo e dell’opinione pubblica russa si sposta così dall’Ucraina al Medio Oriente, a vantaggio di Mosca. E la colpa di questa nuova guerra, secondo la narrazione del Cremlino, è da attribuire agli Stati Uniti.
Il commento di Putin alla strage si è fatto attendere tre giorni. Una reazione che probabilmente riflette i complessi e talvolta contraddittori rapporti diplomatici con cui Mosca, negli ultimi decenni, ha cercato di stabilire solidi rapporti con Israele, sostenendo al contempo la causa palestinese.
Alla fine il commento di Putin è arrivato il 10 ottobre, durante il ricevimento del primo ministro iracheno Mohammed al-Sudani al Cremlino: l’aggravarsi della crisi tra palestinesi e israeliani, ha detto Putin, è “un chiaro esempio del fallimento della politica degli Usa in Medio Oriente”. A suo dire, Washington non ha fatto nulla per trovare un compromesso soddisfacente, e non ha preso in considerazione gli interessi fondamentali del popolo palestinese. “Mi riferisco innanzitutto alla necessità di applicare la decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano”, ha detto Putin.
Nel frattempo, sulla stampa e sui social network russi si sono alternate le reazioni più disparate, tra appelli alla diplomazia, sostegno alla Palestina, accuse a entrambi gli schieramenti, critiche all’Occidente e addirittura commenti sarcastici contro i connazionali russi che, per scappare dall’arruolamento e dalla guerra in Ucraina, si erano trasferiti in Israele. Andando incontro alle bombe anche lì.
Fra tutte le dichiarazioni, colpiscono gli appelli alla pace e al cessate il fuoco invocati dal ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, e dal suo vice, Mikhail Bogdanov. Invocazioni che hanno del surreale, visto che il loro stesso Paese continua a lanciare bombe sull’Ucraina ormai da più di un anno e mezzo.
Nel frattempo l’ex presidente russo Dmitrij Medvedev ha affermato, senza fornire prove, che l’Ucraina avrebbe consegnato ai militanti di Hamas le armi di produzione occidentale utilizzate nell’attacco a Israele.
Il nuovo conflitto tra Hamas e Israele si inserisce nel quadro più ampio di quella che è già stata definita la Guerra grande. In questo contesto e con la definizione delle nuove alleanze, dopo un presunto tentennamento iniziale la Russia ha deciso da che parte stare: Mosca accoglierà in visita il presidente palestinese Abu Mazen (Mahmoud Abbas). La data non è ancora stata annunciata, ma sarà “piuttosto presto”, come ha fatto sapere l’assistente presidenziale per la politica estera russa Jurij Ushakov.
Gli equilibri si stanno ridisegnando ed è come se i focolai sparsi nei vari angoli del mondo si stessero riaccendendo. Prima l’Ucraina, poi il Nagorno Karabakh, ora il Medio Oriente. Secondo l’esperto russo di politica internazionale Aleksandr Baunov, Putin in un certo senso è riuscito nel suo intento di cambiare l’ordine globale: c’è riuscito non con la vittoria in Ucraina, come sperava, bensì attraverso l’uso della guerra e della violenza come strumento per ridefinire i confini e gli equilibri.
“La guerra non è certamente una cosa nuova e non se l’è inventata Putin. Ma è come se la Russia l’avesse nuovamente sdoganata, usandola per di più non sul proprio territorio, ma sul territorio di un Paese vicino. Putin ha reso di nuovo la guerra possibile”.
Anche nel Ventunesimo secolo. Anche in Europa, dove i conflitti sembravano relegati ai manuali di storia.
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