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Attivismo civico, la rivoluzione partita dal basso arriva alle aziende
Non chiamatelo solo shopping. Acquistare il prodotto di una marca piuttosto che un’altra, oggi è sempre di più un atto “politico”, che impone cioè una scelta di carattere sociale, oltre che economica e ambientale. Già, perché il consumatore odierno è molto più informato rispetto a un tempo e si aspetta che un brand sia attivo
Non chiamatelo solo shopping. Acquistare il prodotto di una marca piuttosto che un’altra, oggi è sempre di più un atto “politico”, che impone cioè una scelta di carattere sociale, oltre che economica e ambientale. Già, perché il consumatore odierno è molto più informato rispetto a un tempo e si aspetta che un brand sia attivo concretamente nella società, nell’inclusione e nell’ambiente. Addirittura, secondo i dati dell’Osservatorio Civic brands raccolti da Ipsos & Iabicus, uno su due (il 47 per cento degli intervistati) dichiara di aver smesso di comprare prodotti o servizi di marche perché deluso dal loro comportamento. La conseguenza? Sempre più brand si appassionano all’attivismo civico e diventano civic brands, ossia aziende che intraprendono un percorso di coerenza, responsabilità e trasparenza. Una rivoluzione dal basso che ha iniziato a farsi sentire dal 2019 sulla scia di movimenti popolari come Black Lives Matter, Fridays for Future o Me Too.
Il primo evento dedicato ai civic brands
Se n’è parlato nel corso di No purpose, no party, il primo evento in Italia dedicato all’attivismo civico delle aziende (o attivismo di marca), tenutosi il primo marzo presso la Triennale di Milano. Dagli agrumi custodi della biodiversità ai produttori di energia pulita, passando per il pet food etico, si è discusso sul significato, per un’azienda, di fare attivismo civile. “Abbiamo voluto raccontare come i nuovi consumatori e le nuove consumatrici chiedano alle marche di occuparsi di temi che escono fuori dal classico perimetro delle quattro P di Kotler (Product, Place, Price, Promotion), per rivolgere il proprio impegno verso altre e nuove P (Planet, People, Prosperity). Per questo motivo il nostro appuntamento ha visto come momenti topici tre tavole rotonde, ognuna dedicata ai tre nuovi pilastri dello sviluppo sostenibile” afferma Francesca Petrella, communication manager di Ipsos e una delle fondatrici dell’Osservatorio Civic brands insieme a Paolo Iabichino.
Attivismo civico: la responsabilità dei marchi verso il Pianeta
“Le persone nutrono aspettative importanti verso i brand e le aziende, perché fanno parte del nostro quotidiano molto più di quanto si comprenda realmente” afferma Andrea Fagnoni, chief client office di Ipsos. Il civismo è dunque assumersi delle responsabilità, innanzitutto verso il Pianeta. A questo proposito Guerino Delfino, executive vice president di LifeGate, ha sottolineato come la domanda chiave che un’azienda oggi deve porsi è: “Come faccio il prodotto? Quale impatto genero?”. Tra le aziende chiamate a rispondere c’era una giovane realtà dell’ortofrutta come Citrus, che nelle parole della sua fondatrice Marianna Palella ha dichiarato: “Il nostro impegno è quello di tutelare la biodiversità italiana. Ad esempio, siamo stati i primi a portare il bergamotto di Calabria nella grande distribuzione. E la prima azienda a utilizzare un film compostabile per le cassette di frutta”. Anche Nicola Tagliafierro, responsabile della sostenibilità di Enel X, ha raccolto la sfida dell’attivismo ambientale affermando: “Abbiamo questa responsabilità e ce la sentiamo! Noi facciamo energia rinnovabile, ma soprattutto efficienza energetica che significa non consumare le risorse e lavorare sul risparmio dell’energia”.
L’impegno sociale dei brand
L’indagine dell’Osservatorio Civic brands mostra anche come il 64 per cento dei consumatori vorrebbe che le aziende agissero concretamente in ambiti sociali delicati come i diritti civili, l’antirazzismo e l’uguaglianza di genere. Un campo molto caro a Oxfam che nelle parole di Marta Pieri, head of Oxfam private sector partnership, all’interno della tavola rotonda People, dichiara: “L’obiettivo è sconfiggere la disuguaglianza. Un’azienda oggi non può fare business se non è consapevole del proprio impatto. Per questo, quando accompagniamo un brand nel percorso domandiamo loro: ‘Siete proprio sicuri di voler intraprendere questa strada e di voler mettere tutte le persone sullo stesso piano?”. Essere civic brands, infatti, è una strada difficile perché significa assumersi delle responsabilità.
Ogni consumatore può fare la differenza
Lo sanno bene anche realtà come Altromercato che dichiara, nelle parole del suo presidente Alessandro Franceschini, come “il cambiamento sia scomodo. Diffidate della sostenibilità rassicurante, che spesso è solo di facciata, e nasconde l’insidia del greenwashing. La prosperity? Per noi è la corretta distribuzione delle ricchezze in tutte le filiere. Un concetto che si basa sulla collaborazione”. O ancora, la versione innovativa del profitto per Pier Giovanni Capellino, fondatore di Almo Nature, che ricorda come “la fondazione sia proprietaria dell’azienda: un modo per destinare tutti i profitti alla tutela della biodiversità”. Dopotutto il consumatore può fare la differenza a cominciare proprio dal carrello, perché acquistare è una scelta e farlo optando per il prodotto di un’azienda impegnata nell’attivismo civico è una chiamata alla responsabilità.
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