Le nuove scioccanti prove sulla morte dell’attivista ucciso ad Atlanta, Manuel Esteban Paez Terán, e la sorte di altri attivisti accusati di terrorismo.
Nuove prove emergono dall’autopsia sul corpo di Manuel Esteban Paez Terán, ucciso ad Atlanta.
Intanto sono 19 i manifestanti accusati di terrorismo interno.
Un modo per mettere a tacere il nuovo volto dell’ambientalismo e di chi lotta contro il diritto di opporsi.
“È stato colpito da almeno tredici colpi di pistola”. È lo scioccante risultato dell’autopsia richiesta dai familiari di Manuel Esteban Paez Terán, l’attivista ucciso dalla polizia mentre manifestava per proteggere il cuore verde di Atlanta, capitale della Georgia, negli Stati Uniti, il 18 gennaio. Un giorno che rimarrà certamente nella storia dell’attivismo perché ha fatto capire al mondo che si può morire per un ideale anche in Occidente. Eppure, la notizia non è finita come sulle pagine dei giornali di tutto il mondo, come si aspetterebbe in questi casi. Anzi, è stata per lo più ignorata o relegata ad un’analisi superficiale che suona più da resoconto degli eventi.
Così com’è passato inosservato il fatto che nelle ultime tre settimane almeno 19 persone sono state arrestate e accusate di terrorismo interno nella stessa foresta in cui è stato freddato Tortuguita, questo era il suo soprannome. Un’accusa che potrebbe costare loro fino a 35 anni di carcere e che si basa su una legge, approvata nel 2017, promulgata per punire coloro che “mettono fuori uso o distruggono” infrastrutture critiche, “intimidiscono” i civili o “influenzano la condotta del governo”. A questo si aggiunge il rifiuto, perlomeno momentaneo, da parte delle istituzioni di rendere pubblici i risultati dell’autopsia ufficiale sul corpo di Manuel Esteban e di fornire informazioni ulteriori sul caso finché le indagini non saranno concluse nei prossimi 60-90 giorni. Dichiarazioni che hanno scatenato la pronta reazione della famiglia e dei compagni dell’attivista ucciso, i quali temono ritardi e insabbiamenti. Da quanto si legge anche nei comunicati ufficiali del corpo di polizia di Atlanta, infatti, le telecamere in dotazione agli ufficiali del Georgia bureau of investigation durante le operazioni di sgombero, non fornirebbero prove di quanto accaduto il 18 gennaio.
At the start of the video, officers can be heard joking as they make their way to a pair of tents. After confirming no one is inside one officer starts slashing up the tent and later makes a joke about how the tent is no longer livable.https://t.co/Utq0ARxY6I
Chi sono gli attivisti accusati di terrorismo che lottano contro la città-polizia
La maggior parte dei manifestanti sono studenti universitari, provenienti da diversi Paesi degli Stati Uniti, che hanno passato gli ultimi mesi in un accampamento allestito all’interno della South river forest. Qui, infatti, verrà presto costruita una struttura preposta all’addestramento del dipartimento di polizia di Atlanta, la cosiddetta Cop city, la città dedicata a centro per la polizia, che secondo i manifestanti farà della città il luogo più sorvegliato degli Stati Uniti: un vero e proprio luogo militarizzato che non incontra l’approvazione degli abitanti dei quartieri limitrofi – a maggioranza afroamericana – né tantomeno degli ambientalisti che si sono organizzati sotto lo slogan “Stop Cop city” e, oltre ad aver sbarrato gli ingressi alla foresta, sono stati accusati di aver minacciato gli appaltatori e averne vandalizzato le attrezzature.
Alla radice del movimento di opposizione c’è la consapevolezza che il centro di addestramento distruggerà inesorabilmente un’importante foresta urbana, rendendo il territorio ancora più vulnerabile alle inondazioni, oltre a danneggiare l’habitat di anfibi e uccelli migratori. Nonostante i recenti tragici sviluppi, i manifestanti continuano tuttora ad occupare la zona. Una prova di forza che la polizia di Atlanta non sembra aver digerito visto che, a pochi giorni dall’uccisione di Manuel Esteban Perez e dall’arresto di almeno 19 manifestanti, è stata condotta una nuova massiccia operazione di sgombero a cui hanno partecipato anche le squadre d’assalto con armi speciali (i cosiddetti Swat).
Dall’altra parte della barricata, il pugno di ferro dell’amministrazione
Da quanto si evince dai rapporti della polizia, invece, le accuse di terrorismo mosse contro i manifestanti arrestati si basano sulla loro presunta associazione con un gruppo chiamato Defend the Atlanta forest che il dipartimento di Sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha classificato come “estremisti violenti interni”. Un movimento che rischierebbe di far naufragare la costruzione di una struttura di addestramento fondamentale per garantire la sicurezza dei cittadini e la creazione di un corpo di polizia efficiente e preparato ad affrontare situazioni come quella che si è verificata nel 2020, quando George Floyd è stato barbaramente ucciso da un poliziotto durante quello che è stato definito un “regolare controllo”. Inoltre, secondo le forze dell’ordine locali, la protesta in difesa della foresta sarebbe un evento del tutto estraneo alla città e sostenuto da persone cresciute fuori dallo Stato che, per questo, non ne conoscerebbero a sufficienza il contesto. Una teoria che si scontra non solo con il buon senso ma anche con la realtà visto che l’ambiente non solo non gode di diritti di cittadinanza ma è anche uno dei massimi esempi di bene comune che, in quanto tale, va difeso su scala globale anche quando i benefici che apporta sono, almeno all’apparenza, solo locali.
Un’escalation di violenza che pesa sui diritti civili e sull’ambiente
Mentre le istituzioni sostengono a spada tratta la costruzione di una nuova infrastruttura ai danni di una foresta dalla storia lunga e travagliata, il pugno duro della polizia contro i manifestanti sta offrendo a questi ultimi lo slogan dietro a cui trincerarsi e un’occasione per attirare le simpatie di una buona fascia della popolazione che non vede di buon occhio la militarizzazione della città. Se, infatti, i movimenti attivisti non sono nuovi ad azioni radicali, in un momento storico caratterizzato da una già diffusa sfiducia nelle istituzioni, e dalla paura per un futuro che sembra sempre più minacciato dalla crisi ambientale e, di conseguenza, da quella geopolitica, i fatti di Atlanta spianano la strada ad una riflessione sul ruolo dello Stato e su quello dei cittadini, sull’opportunità di non rispettare le leggi quando esse vanno contro la coscienza e i diritti dell’uomo, e su dove inizia il diritto di opposizione e su come questo debba necessariamente essere tutelato. Tanto più se l’oggetto della discordia è quel mondo naturale che ci garantisce la sopravvivenza su questo Pianeta e contro il quale sembra non siamo capaci di deporre le armi.
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