L’Italia, al momento, non è un Paese per attivisti. Quando si contesta lo status quo si rischia la punizione penale, civile, sociale, e a volte anche quella fisica.
Molte manifestazioni sono accolte come una semplice interruzione dell’ordine pubblico, un rallentamento programmato e niente più. Un sasso che per un istante crea una perturbazione nella corrente, ma poi viene ingurgitato, e le increspature riassorbite. Altre manifestazioni, invece, soprattutto di dissenso politico da parte della società civile, sono percepite come perturbazioni effettivamente pericolose, come vere e proprie rotture del normale fluire del sistema. E, in questi casi, si sa che il rischio di veder sfoderare manganelli e levare scudi aumenta. Sia in senso letterale che metaforico, siano questi fatti di policarbonato trasparente o di cavilli e articoli del codice civile e penale.
Quello a cui stiamo assistendo è un momento di rottura effettiva. La società civile, le persone che di fatto costituiscono il tessuto sociale, sono sempre più consapevoli, forzate a prendere consapevolezza da forze maggiori come alluvioni, carovita, guerre e morti, che lo stato delle cose non è efficiente, anzi è disfunzionale. Nel vero senso della parola non funziona, almeno non per la massa globale. Estrazione, produzione, consumo e accumulo, infatti, stanno modificando il ciclo idrologico del pianeta, alterando gli equilibri del clima a furia di condensare gas serra nell’atmosfera. Questo sta innescando un aumento nei processi di competizione per l’approvvigionamento di risorse, che esacerbano i conflitti e le fragilità nei paesi più colpiti dalla crisi climatica. Nel mentre le diseguaglianze si acuiscono, mentre si alimentano i super patrimoni.
Le persone, questa instabilità crescente la percepiscono. Ne soffrono e vi reagiscono. L’instabilità porta con sé un’attenzione crescente alla demagogia reazionaria, quella che di fatto inventa un passato in cui andava tutto benissimo, che al computo della storia non è mai esistito, e promettono di ritornarvi consegnando all’elettore, ascoltatore, consumatore spaventato una serenità formato tascabile. Inneggiano a un’età dell’oro e inventano minacce esterne a cui attribuire la causa di tutti i mali. Per contro, però, sorgono risposte alternative, forme di politica che vogliono snudare la fissità della politica dall’alto, quella che nel nostro paese dovrebbe muoversi secondo principi di democrazia parlamentare, e spingerla a cambiare direzione, a scegliere un atteggiamento dinamico e propositivo. E in caso di fallimento effettivo di questa politica, si propongono come alternativa, organizzando metodi decisionali e di condivisione inediti capaci di essere effettivamente una proposta, per quanto indiretta, per creare un mondo diverso, in cui il potere non è concentrato ma diffuso.
Queste proposte, ovviamente, fanno paura proprio a quella politica da poltrona, quella che cerca di accaparrarsi un posto in Parlamento, invece che impegnarsi a promulgare qualche politica degna di questo nome. E il potere, quando si spaventa, inevitabilmente vacilla. Per nascondere la triste debolezza che lo ammanta, si ritrova quindi a giocare la carta dell’uso della forza, un mezzo di terrore e repressione insindacabile. Così assoluto da essere difeso persino da chi lo subisce.
L’uso della forza per reprimere il dissenso politico non è certo una novità, anzi. Si comincia dalle parole usate per definire le persone che manifestano, in modo da orientare la percezione pubblica delle loro azioni. Definire una persona che compie un atto politico per evidenziare la necessità di un’azione climatica degna “ecoterrorista” fa molto più gioco che chiamarla cittadina preoccupata per l’inazione politica e per il degrado ambientale crescente. Ecoterrorista evoca una serie di schemi di inaccettabilità che automaticamente portano l’opinione pubblica, e quindi il suo sostegno politico, ad avere paura e a voler semplicemente, veder sparire la minaccia.
Lo stesso dicasi per l’uso del termine “gruppi antagonisti” una costante di una vaghezza disarmante. Per non parlare del sempiterno e classico riferimento al terrorismo su cui non lesina chi nega la legittimità della protesta pro liberazione della Palestina.
Seguono poi gli inasprimenti pratici, dalle attività di monitoraggio e controllo ai meccanismi di repressione fisica effettivi. E di nuovo, non è una novità. Già nel 1525, le proteste contadine contro le espropriazioni privatizzanti furono represse nel sangue, nella morte di circa centomila persone. O ancora nel 1871 il governo francese massacrò tra le ventimila e le trentamila persone per mettere fine alla Comune di Parigi. E non è un caso isolato, né in Europa né nel mondo. Il governo coloniale britannico in Nigeria, nel 1929, uccise le donne igbo che manifestavano contro l’aumento della tassazione. E via così, verso gli eventi che oggi ci sono più affini. Le botte in piazza, i manganelli sul cranio di studentesse e studenti, di persone, giovani perlopiù, che manifestano per ottenere diritti essenziali. Minimi, verrebbe da dire. Come quello di vivere, vivere degnamente, in un mondo sano, equo e con un futuro.
Massimiliano, che fa attivismo da maggio 2023 con Ultima Generazione e da settembre anche con Ribellione Animale, racconta che il suo rapporto con le forze dell’ordine è cambiato da quando ha iniziato a fare attivismo, nello specifico da quando fa disobbedienza civile. “Ci sono stati stati vari casi di uso ingiustificato della forza da parte delle forze dell’ordine, anche casi di violenza verbale”, specifica. E se già dalle immagini social è possibile vedere la brutalità di arresti e spostamenti, ciò che accade quando le camionette della polizia chiudono i portelloni è meno noto, “in commissariato o nelle questure dove ci sono stati veri e propri casi di abusi, soprattutto nelle perquisizioni”.
Ricorda due casi particolarmente estremi, il primo alla questura di Milano di via Fatebenefratelli: “dopo che noi avevamo fatto non cooperazione, c’è stata una reazione abbastanza violenta da parte delle forze dell’ordine nelle perquisizioni. Le persone sono state costrette a denudarsi o sono state denudate sotto urla e minacce”.
L’abuso del corpo, l’umiliazione della nudità, la coercizione psicologica usata per mettere le persone in una condizione di vulnerabilità assoluta, la nudità, sono atti che seguono la mentalità militarista dell’annullamento dell’altro. Le persone non sono più considerate tali, ma oggetti da piegare, da abusare perchè abbiano paura, perchè si sottomettano e perché, in qualche modo, la traccia dell’aggressione funga da deterrente. Lo scopo di queste procedure che, come rileva lo stesso Massimiliano, non sono necessarie, anche perché si tratta di gruppi non violenti, è proprio quello di minare la solidità dell’individuo, farlo sentire solo e distruggere la sua volontà.
“Sicuramente ho notato un accanimento diverso e un’attenzione speciale verso noi di Ultima Generazione nel corso del tempo, anche se va detto che l’atteggiamento nei confronti delle persone straniere o percepite come tali è decisamente molto peggiore di quello che riservano a noi”. Un cambiamento che Massimiliano sente essere collegato a quello registrato nelle camere del potere, di chi governa. “Un esempio di questo c’è stato a Fiumicino, in cui l’atteggiamento delle forze dell’ordine è cambiato repentinamente e in maniera ingiustificata. Addirittura all’inizio alcuni agenti commentavano con noi il video del blocco, scherzando. Dopo circa tre o quattro ore i loro comportamenti sono cambiati, drasticamente. Hanno preteso di fare perquisizioni che prima non avevano richiesto o che avevano già fatto. A me hanno rifatto una perquisizione corporale, un altro attivista ha subito una perquisizione dei genitali senza motivo apparente. Poi hanno chiuso le sbarre della cella e hanno smesso di interagire con noi fino a quando ci hanno comunicato l’arresto. Anche qui senza comunicarci i capi di imputazione. L’impressione è che questo cambio di atteggiamento sia stato legato alla volontà di applicare il decreto Salvini per i blocchi che, peraltro, non era ancora passato in Parlamento dal punto di vista attuativo”.
Procedure e restrizioni, queste che sono già state testimoniate pubblicamente anche da altri attivisti.
La disposizione nei confronti delle persone che si impegnano nell’attivismo, soprattutto nella disobbedienza civile, sembra essere effettivamente cambiato in favore di un’espressione più violenta e intimidatoria. Massimiliano era presente anche a Sairano ed è stato vittima e testimone della brutalità con cui la polizia ha forzato il suo ingresso nel rifugio Cuori Liberi, accanendosi con un uso smodato della forza sulle persone che stavano, semplicemente, facendo resistenza pacifica.
Il racconto di Beatrice, attivista in Ultima Generazione, parte mirato, diretto. Rintraccia subito il paternalismo sessista e ageista (che discrimina in base all’età) con cui capita che vengano trattati nei commissariati, che di solito si incarna in quella figura più anziana che vuole spiegare loro i metodi giusti. A lei, in particolare, dicono che sbaglia: “Sei giovane e bella, perché ti rovini così?”. Perché sul suo corpo si permettono di inserire inferenze di genere, di intervenire con quella narrativa infantilizzante e sessualizzante che la relega in quel “bella”, quando Beatrice in commissariato ci è finita per una volontà politica. “Una volta mi dissero persino che sarei dovuta andare a fare la modella invece della criminale”.
Riconosce che c’è un fuori dalla norma, come l’agente che durante il trasporto ha detto a lei e ad altri compagni “vi ammazzerei tutti”. Casi limitati, ma terrificanti. Abusi fuori dal commissariato sono praticamente la norma: strattonamenti e trascinamenti non in sicurezza sono così frequenti da apparire normali all’occhio di guarda.
“Io ho vissuto la protesta al Senato, ero una delle due persone nude. E per me è ancora un incubo il momento in cui hanno bloccato i giornalisti e ci hanno trascinato nude sull’asfalto con una mano, con un dolore, io che urlavo di dolore e li pregavo di fermarsi e loro che dicevano te lo meriti”.
Beatrice, attivista di Ultima Generazione
E poi il carcere, la brutalità delle secondine, il sessismo che impregna ogni angolo e non si schioda, non se ne va. Indelebile. Le modalità di intere zone repressive, sfociano agilmente nel sessismo. Alle persone attiviste percepite come donne sono spesso riservate umiliazioni verbali particolari che spaziano dalle insinuazioni sulla vita sessuale allo sminuimento identitario, come è successo a Sairano, se non addirittura vere e proprie molestie compiute allo scopo di umiliare, reprimere e colpire le persone coinvolte. Sessismo istituzionale, questo, che ovviamente mostra quanto la violenza patriarcale sia integrata nel militarismo delle forze dell’ordine.
Kaue, anche lui attivo in Ultima Generazione e Ribellione Animale, mi dice che “di norma, la nostra attitudine è un modo conscio di resistere per mostrarci in disaccordo con il ruolo delle forze dell’ordine e le loro modalità. Si comportano in maniera molto diversa dentro e fuori dalla questura, fuori ricoprono il ruolo dei paladini, come nel caso dei blocchi in cui è capitato che venissero applauditi, e quindi sono anche più violenti, ma questo cambia anche in base al territorio e all’età degli agenti, i più giovani sono più aperti al dialogo, quelli più anziani non ci guardano nemmeno negli occhi, come se non riuscissero ad uscire da quel ruolo che sembra quasi incastrato in ogni loro fibra. Mi ricordo che a Torino, dopo un’azione con Ug, degli agenti, molto giovani, si sono addirittura messi a parlare con noi, a farci domande fino a che i colleghi anziani non li hanno richiamati facendo cambiare loro atteggiamento”.
Le reazioni degli attivisti
Le reazioni degli attivisti, spiega, sono pensate anche per comunicare con le forze dell’ordine. La resistenza passiva stessa, l’atto di non collaborazione, fare cose destabilizzanti anche in questura, come cantare tutti insieme o tacere in maniera assoluta, è un modo per spiazzare, per dimostrare che non c’è ostilità e, magari, aprire un dialogo.
Kaue mi parla anche del pianto, della forza di piangere e di ridere di fronte e questi “uomini giganteschi, quasi fatti di pietra” per mostrare, dimostrare, la forza dell’emotività, del legame che intreccia le persone attiviste le une alle altre e alla causa. Kaue sente però di non potersi fidare delle forze dell’ordine “di chi dovrebbe proteggermi”, nonostante lui non abbia un rifiuto verso di loro e anzi, abbia dimostrato nelle azioni la volontà di rivolgersi anche a loro come persone, mentre per contro, sente di essere trattato come un oggetto. È stato testimone di abusi, verbali, psicologici e fisici, allo scopo di intimidire le persone attiviste. “Ho visto persone essere lanciate sul cemento, spinte per terra, essere tirate per i capelli. Non ci trattano bene”. Mi racconta di quest’estate, dell’azione del Cavallo, nel pieno calore del luglio milanese, un luglio acceso dalla crisi climatica e di come, tenendo conto del caldo lo abbiano tenuto a lungo ammanettato in macchina, in attesa, a costo di rischiare che svenisse.
L’inasprimento delle modalità repressive non è solo una percezione, giornalistica o individuale, ma un’evidenza statistica come testimonia Mariapaola Boselli, research and campaign senior officer di Amnesty International, curatrice della campagna Proteggo la Protesta, il cui scopo è tutelare il diritto di protesta, garantendo ai manifestanti protezione, rimuovere barriere e restrizioni all’esercizio di questo diritto.
La protesta non è un crimine. Restituisci la libertà alle persone perseguitate e arrestate ingiustamente, sostieni Amnesty International #ProteggoLaProtesta
“Quello che emerge dalla ricerca è che dalla mappatura vi è una crescente criminalizzazione dell’attivismo e delle persone attiviste, di coloro che semplicemente scendono in piazza a manifestare il proprio dissenso, una criminalizzazione che passa per la stampa e per le istituzioni che si rivolgono alla stampa”.
Per le attiviste e gli attivisti viene richiesta la punizione carceraria da diversi esponenti della politica, ricorda Boselli, un fatto non indifferente che rischia di sminuire le istanze spostando l’opinione pubblica e le azioni istituzionali su una prospettiva più violenta. Spesso infatti si registra un’attenzione quasi morbosa verso le singole persone attiviste e i metodi, in modo da “lasciare in secondo piano i contenuti, svalutando il ruolo di una protesta”. Insomma si chiede il carcere, si parla di crimine e non si ascolta cosa le persone hanno da dire.
“Esempio lampante sono i blocchi stradali. Le persone attiviste vengono chiamate terroriste e vandali. Parole spropositate rispetto all’atto compiuto, alienandolo dal contesto della disobbedienza civile”.
“La repressione si muove nei binari della legalità, alcuni strumenti del diritto, es. misure prevenzione, come il foglio di via, stanno diventando strumenti ad applicazione frequente. provvedimenti limitativi della libertà di movimento spesso dati anche a persone impiegate in un blando volantinaggio.” L’apparato preventivo sta venendo usato come apparato punitivo che “va ad incidere sulla fruizione del diritto di protesta”.
⭕️ STOP ai pericolosi blocchi stradali degli eco-imbecilli.
✅ AVANTI con la proposta di legge della Lega per l’introduzione del reato penale, l’arresto in flagranza, e il daspo urbano a chi ferma il traffico danneggiando ambiente, cittadini, lavoratori e studenti. pic.twitter.com/gfqUpF1ANQ
“La stessa attività legislativa sembra inasprirsi allo scopo di stringere le maglie e aumentare i limiti al diritto di protesta. Tra queste la legge nota con il nome ddl ecovandali che Amnesty, per non aderire ad un linguaggio stigmatizzante, chiama legge contro gli attivisti climatici. Dalla nostra ricerca emerge un uso della forza da parte delle forze di polizia fortemente localizzato sul territorio, come nel caso del torinese o nel bolognese. Quello che manca è la responsabilità processuale delle forze dell’ordine. L’uso della forza da parte delle forze dell’ordine è legittima solo in circostanze eccezionali, perché le forze di polizia hanno il compito di facilitare lo svolgimento delle manifestazioni, devono tutelare i manifestanti. In caso di tensione devono scegliere la via della comunicazione e della diplomazia”, conclude Boselli.
Quello a cui stiamo assistendo invece, è un uso della forza come deterrente, in maniera diffusa e smodata rispetto alla minaccia reale. Anche perché il più delle volte si parla di giovani persone che fanno resistenza pacifica per spingere chi dovrebbe ambire a rappresentarli ad azioni politiche che le tutelino e migliorino la vita.
La condanna di Ultima Generazione
E invece, il 5 marzo il tribunale di Roma ha condannato a tre mesi di reclusione e al pagamento di una provvisionale di sessanta mila euro tre attivisti di Ultima Generazione che il 2 gennaio del 2023 avevano imbrattato la facciata di palazzo Madama. La richiesta del ministero della Cultura e il Comune di Roma, invece, era di un risarcimento danni da 190mila euro. Non sorprende visto la coerenza con la legge approvata a gennaio che aumenta le pene pecuniarie e quelle detentive per chi “distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte inservibili o non fruibili beni culturali o paesaggistici propri o altrui”.
No, al momento l’Italia non è un Paese per attivisti. La prospettiva, però, è che lo diventerà. O meglio, che sarà l’attivismo, che di fatto è politica attiva dal basso, a smontare le storture del sistema e a rifarlo da capo. A rompere gli argini e liberare il corso del fiume.
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