La maggioranza bianca dell’Australia ha votato contro l’inclusione degli Aborigeni in Costituzione e la creazione di un organo di rappresentanza parlamentare.
Oggi i popoli aborigeni costituscono il 3,2 per cento della popolazione australiana.
Gli Aborigeni continuano a subire discriminazioni sociali, economiche e politiche.
Il referendum doveva cambiare lo stato delle cose, ma hanno vinto i No.
Il 14 ottobre in Australia si è tenuto il referendum per il riconoscimento degli Aborigeni nella Costituzione. Un voto che poteva rappresentare una svolta per i popoli indigeni del paese, che ancora subiscono profonde discriminazioni e non hanno un tessuto legale e una rappresentanza istituzionale adeguata per migliorare le loro condizione.
La situazione non è destinata a cambiare: nel referendum hanno vinto i No, con valori intorno al 60 per cento. E gli aborigeni hanno annunciato una settimana di silenzio, dopo la delusione per i risultati.
Il referendum per gli aborigeni
Il numero di indigeni in Australia è in forte crescita. Se nel 2011 erano circa 670mila, il 3 per cento della popolazione, con il censimento del 2021 la quota è salita al 3,2 per cento ed entro il 2031 si prevede di raggiungere il 3,9 per cento. Questo non significa che i popoli indigeni stiano effettivamente aumentando in Australia, quanto piuttosto che un clima migliore in termini di riconoscimento e lotta alle discriminazioni ha fatto sì che sempre più persone con origini indigene venissero allo scoperto. Nonostante questo, il contesto per i popoli indigeni australiani resta molto difficile.
I popoli indigeni in Australia sono discriminati sul lavoro e nell’accesso ai servizi sociali e questo si traduce in un’esistenza precaria, all’insegna della povertà e delle scarse opportunità. Una conseguenza anche del fatto che nella Costituzione australiana gli Aborigeni e i Torres Strait Islander non trovano spazio, una mancanza che rende difficile cambiare lo stato delle cose.
‘My daughter was there, she got it, she's 9.’ As Australia inches closer to Referendum Day, Rove explains why our First Nations People should be given a Voice to Parliament. pic.twitter.com/xpWgZIuk13
Il 2023 poteva essere l’anno della svolta. Il premier laburista Anthony Albanese in primavera ha annunciato un referendum sui popoli indigeni. Il quesito proponeva l’inserimento nella Costituzione di una sezione dedicata agli Aborigeni e ai Torres Strait Islander, compresa l’istituzione di un organo di rappresentanza di questi popoli in parlamento, così che le loro istanze potessero trovare una voce istituzionale. Ma non è andata come doveva andare.
La vittoria dei No
Con circa l’80 per cento delle schede scrutinate, la vittoria è andata in modo abbastanza netto a chi non vuole dare rappresentanza agli Aborigeni in Costituzione. Cioè alla maggioranza bianca del paese.
Australians voted quickly and decisively against a constitutionally enshrined voice to parliament in the country's historic referendum. @AmyRemeikis reflects on the result, and what the no vote means for Australia and the fight for Indigenous rights.#referendum2023pic.twitter.com/lU2FWamp1L
I voti per il No sono stati circa il 60 per cento e a incidere sembra sia stato non tanto il riconoscimento costituzionale, quanto la creazione di un organo consultivo ad hoc, chiamato The Voice. L’esito del referendum è una sconfitta pesante per gli Aborigeni, che hanno proclamato una settimana di silenzio. “Abbiamo chiesto un riconoscimento ed è stato rifiutato. Ora sappiamo qual è il nostro posto in Australia”, hanno dichiarato amaramente. Ma l’esito del voto è una sconfitta anche per il premier Anthony Albanese, che ne aveva fatto un pilastro programmatico. Il presidente ha invocato ora uno spirito di unità, promettendo che continuerà a lavorare per abbattere le discriminazioni nel paese e per l’inclusione sociale dei popoli indigeni.
Quel legame tra la campagna per il No e l’industria fossile
C’è poi un aspetto di questa storia che ha dell’inquietante: la campagna per negare ai popoli indigeni una voce nel parlamento nazionale australiano è legata all’industria delle fonti fossili, come raccontato dalla testata giornalistica DeSmog. Infatti, i principali portavoce della campagna per il “no”, FairAustralia, sono stati due aborigeni, Warren Mundine e la senatrice australiana Jacinta Nampijinpa Price: pochi australiani erano consapevoli del fatto che Mundine e Price collaborano da molto tempo con il Center for independent studies, un think tank conservatore finanziato da società di estrazione fossile come Shell, Rio Tinto e Western mining corporation.
Inoltre, il Center for independent studies fa parte della rete di think tank Atlas, che ha ricevuto il sostegno di compagnie petrolifere, del gas e del carbone e opera in quasi 100 paesi. In Canada, i membri di Atlas sono stati protagonisti di una campagna contro gli indigeni simile a quella portata avanti in Australia.
Non sorprende che la causa dell’industria fossile si unisca alla lotta contro i diritti degli indigeni: sappiamo quanto i popoli nativi, non solo in Australia ma in tutto il mondo, osteggino i mega-progetti di estrazione di petrolio, gas e carbone. È successo in Australia, così come negli Stati Uniti. Per questo, dal punto di vista dei conservatori e dei negazionisti dei cambiamenti climatici, è stata opportuna una campagna per impedire ai popoli nativi di ottenere più voce in parlamento.
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