Gli avvoltoi hanno subito un collasso del 99% in Asia meridionale. Per molto tempo, nessuno ha saputo perché. Poi una scoperta storica li ha salvati dall’estinzione.
“I primi ad accorgersene sono stati i contadini”, ricorda Vibhu Prakash Mathur. Era la metà degli anni Novanta, e Prakash lavorava al Keoladeo national park, nel Rajasthan, in India. “Un giorno vennero da me lamentando il fatto che le carcasse del bestiame rimanessero a marcire nei campi. E poi mi dissero che gli avvoltoi erano spariti dal cielo”.
Gli avvoltoi, una chiave di volta
Gli avvoltoi non sono creature molto amate. Associati alla morte e al suo lato più macabro, quello del disfacimento del corpo e della putrefazione delle carni, ci ripugnano – e anche se non lo fanno, difficilmente catturano la nostra immaginazione.
Eppure, gli avvoltoi ricoprono un ruolo fondamentale all’interno degli ecosistemi in cui vivono. La ragione è semplice: sono degli animali spazzini, o saprofagi. Come le iene o gli sciacalli, si nutrono delle carcasse di animali già morti. “Sono probabilmente l’unica specie al mondo ad essersi evoluta esclusivamente per la saprofagia”, ha detto Prakash, oggi vicedirettore della Bombay natural history society. Gli sciacalli hanno altre fonti di cibo, gli avvoltoi no.
Nel corso della loro evoluzione, questa caratteristica li ha resi degli spazzini estremamente efficienti. Questi uccelli sono in grado di individuare carcasse distanti anche cento chilometri e di comunicarlo velocemente ad altri avvoltoi; a questo servono i grandi cerchi che disegnano in aria quando avvistano una preda. Questi movimenti, estremamente visibili anche da terra, li notano anche altri animali “spazzini”, che in questo modo individuano carcasse che altrimenti non riuscirebbero a scovare. Riescono ad ingerire grandi quantità di cibo: secondo Prakash, in un giorno un avvoltoio può mangiare tanto quanto il suo peso corporeo, mentre la media degli animali solitamente si aggira attorno al 5 per cento.
In questo modo, le carcasse vengono smaltite rapidamente. Senza gli avvoltoi, il tempo di decomposizione di una carcassa viene addirittura triplicato, secondo uno studio pubblicato su Conservation Biology. Non è un aspetto da sottovalutare: maggiore è il tempo in cui una carcassa rimane in decomposizione, maggiore è la probabilità di diffusione di funghi e batteri – e quindi di malattie.
“Gli avvoltoi spesso intervengono prima che si formino delle spore potenzialmente pericolose. Una volta che si cibano di una preda, il rischio di diffusione delle malattie scompare perché né i batteri, né i funghi sopravvivono all’interno del loro organismo. Non è così con gli altri animali spazzini”, conclude Prakash. “Fanno un lavoro di pulizia così accurato, veloce, efficiente… e che nessun altro animale è in grado di fare. Sono semplicemente insostituibili”. L’importanza della loro funzione ecologica è riflessa nel ruolo che gli avvoltoi rivestono nelle tradizioni religiose dell’India.
Fanno un lavoro di pulizia così accurato, veloce, efficiente… e che nessun altro animale è in grado di fare. Sono semplicemente insostituibili.
Gli avvoltoi, salvatori nella mitologia
Nella mitologia indù Jatayu, il dio-avvoltoio, è un salvatore. La sua storia è legata al rapimento della dea Sita, moglie di Rama, il dio considerato da alcune tradizioni induiste come l’essere supremo. Si racconta che Sita fu rapita dal demone Ravana e imprigionata sulla Git Bahari, la “montagna degli avvoltoi”, e che Jatayu tentò di salvarla. Fu un’impresa vana, perché il demone gli spezzò le ali ed egli precipitò sulla terra; ma il suo sacrificio viene ancora ricordato. Le rocce del Kerala conservano i solchi del becco di Jatayu durante il suo ultimo respiro.
Per i Parsi – una piccola e antichissima comunità originaria della Persia, oggi perlopiù concentrata a Mumbai – gli avvoltoi sono più di una divinità mitologica. Fin dai tempi del profeta Zarathustra, i Parsi depongono i propri morti nelle dakhma, note anche come torri del silenzio. Non possono seppellirli: la terra, il fuoco e l’acqua sono elementi sacri e non possono essere “contaminati” da un cadavere. I corpi vengono adagiati in cima alle torri, spogliati e lasciati in pasto ai rapaci, che smaltiscono i cadaveri in un’ora. Il passaggio dell’anima dal mondo dei vivi a quello dei morti avviene attraverso “l’occhio mistico dell’avvoltoio”.
Oggi nelle torri del silenzio di Mumbai i cadaveri giacciono abbandonati, perché gli avvoltoi non si fanno più vedere.
Fino agli anni Ottanta, in India vivevano almeno 40 milioni di avvoltoi. Appartenevano a cinque sottospecie, tre delle quali – l’indiano, il dorsobianco e il beccosottile – nidificano nelle sterminate pianure indiane a ridosso dell’Himalaya, create nei secoli dai fiumi Gange, Indo e Brahmaputra. Nel 2000, tutte e tre sono state inserite nella Lista rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura, sotto la dicitura critically endangered, gravemente a rischio di estinzione. Nel giro di vent’anni, la popolazione di avvoltoi in India ha subito un crollo del 99 per cento. E per lungo tempo, nessuno è riuscito a capirne la ragione.
Chi ha ucciso gli avvoltoi?
La scoperta di Prakash
A metà degli anni Ottanta, durante la stesura della sua tesi di dottorato, Vibhu Prakash aveva effettuato dei monitoraggi sulla popolazione di avvoltoi al Keoladeo national park. Quando ci tornò, nel 1996, gli abitanti dei villaggi attorno al parco furono i primi ad avvisarlo che qualcosa non andava: gli avvoltoi sembravano essere scomparsi. Incapaci di trovare altre spiegazioni, i contadini davano la colpa agli Americans,gli americani,perché solo gli Americans avrebbero potuto fare una cosa del genere; si vociferava, infatti, che avessero diffuso un qualche pesticida in grado di uccidere gli avvoltoi.
I rilievi effettuati da Prakash non fecero che confermare le impressioni dei locali: rispetto a una decina di anni prima, il numero di avvoltoi che nidificavano nel Parco si era dimezzato. Fu lui il primo a lanciare l’allarme. Tuttavia, il fenomeno rimaneva apparentemente inspiegabile. “All’inizio pensavamo potesse essere la mancanza di cibo” ricorda Prakash, ma dopo una perlustrazione conclusero che ce n’era in abbondanza. Non era nemmeno una questione di perdita di habitat, perché non c’erano stati cambiamenti significativi.
“Ad un certo punto pensammo potesse davvero avere a che fare con qualche pesticida, perché li vedevamo assumere delle posizioni molto strane, con il collo penzoloni, come indeboliti. Ma non trovammo nessuna traccia rilevante di pesticidi nelle carcasse del bestiame”. Non erano stati nemmeno gli Americans. E tuttavia, nel 2000 non era rimasto più nessun avvoltoio a nidificare nel parco.
All’epoca, il fenomeno si estendeva già ben oltre i confini del Keoladeo national park: quando fu effettuato il primo studio su scala nazionale, l’intera popolazione di avvoltoi in India era crollata del 95 per cento rispetto agli anni Ottanta. A quel punto, il team di Prakash era riuscito ad individuare in un’insufficienza renale la causa della morte degli avvoltoi. Continuava, però, ad ignorarne le ragioni. La Bnhs decise di chiedere aiuto alla comunità scientifica internazionale. Con il supporto della London zoological society (Lzs) e della Royal society for the protection of birds (Rspb), cominciarono a lavorare sull’ipotesi che potesse trattarsi di un virus.
La svolta pakistana
Nel 2000, un altro team di ricerca stava indagando sulla scomparsa degli avvoltoi. Erano studiosi del Peregrine Fund, un’organizzazione non governativa americana che dal 1970 si occupa della conservazione di uccelli rapaci in tutto il mondo. Prima in India e poi in Pakistan, gli scienziati stavano affrontando una nuova sfida.
All’inizio, in Pakistan, “abbiamo visto migliaia di avvoltoi, e solo qualcuno morto. E questo mi ha sconcertato”, racconta il biologo Munir Virani, vicepresidente del Peregrine Fund. “Perché in India non c’erano avvoltoi, mentre in Pakistan guardavo in cielo e ce n’erano migliaia?”.
Dopo aver ottenuto i permessi per lavorare in Pakistan, Virani e il suo team, accompagnati dal dottor Lindsey Oakes, microbiologo della Washington state university, istituirono tre squadre di indagini e diagnostica sul campo, nella città di Lahore e in altri luoghi del paese.
Al confine con l’India, cinque fiumi scorrono verso l’oceano. Una serie di canali collega i fiumi che forniscono l’acqua necessaria all’irrigazione dei campi di cotone, riso e grano. I canali sono uniti tra loro da rive rigogliose, tappezzate da alberi di palissandro Sheesham, i cui tronchi raggiungono anche i 25 metri d’altezza.
“Ogni singolo albero aveva un nido di avvoltoio”, racconta Virani, “e ci sono 66mila chilometri di canali dove ogni singolo albero è contrassegnato da un numero. Quindi per noi è stato facile”. Virani mise insieme un gruppo di studenti ricercatori che ogni giorno potesse andare agli alberi per contare i nidi, raccogliere campioni e, a volte, anche avvoltoi morti. “Così abbiamo fatto ogni singolo giorno”, aggiunge Virani. “Gli studenti erano fuori alle prime luci dell’alba. Contavano gli uccelli. Raccoglievano quelli morti. E registravano i dati”.
In tre anni, il team raccolse campioni provenienti da circa duemila nidi. Ma, nel frattempo, il numero dei nidi erano scesi a meno di venti. “Raccogliemmo quasi 1.870 avvoltoi morti”, racconta Virani. “Ogni uccello morto che trovavamo era in buone condizioni fisiche. Questo ci diceva qualcosa. Non c’era carenza di cibo in Pakistan, ci sono carcasse ovunque”, aggiunge. Nel 2002, il team si rese conto che la situazione era fuori controllo: stavano assistendo ad un’estinzione. C’era qualcosa però che aveva attirato la loro attenzione. Quando esaminavano le carcasse degli uccelli, trovavano i reni ricoperti da cristalli bianchi di acido urico. Questo indicava una gotta viscerale aviaria. Ovvero, come aveva intuito anche il team di Prakash, c’era qualcosa che stava distruggendo i loro reni. Ma cosa?
“Doveva essere economico, perché gli allevatori non sono molto ricchi. Doveva essere facilmente reperibile senza prescrizione. E doveva essere qualcosa che causasse un’insufficienza renale”, spiega Virani. Gli studiosi cominciarono a sospettare che potessero essere dei farmaci antinfiammatori che, possono avere effetti simili anche sugli esseri umani. Decisero quindi di chiedere ai contadini cosa mangiassero gli animali e che medicinali gli venissero somministrati. “Cosa date al bestiame se sta male?” chiesero in un sondaggio.
Il diclofenac è un comune farmaco antinfiammatorio, il cui principio attivo è diffuso anche in Italia. In India e in Pakistan era estremamente economico e veniva utilizzato per scopi sia medicinali che veterinari. Gli allevatori lo usavano per curare il bestiame da disturbi come l’artrite reumatoide o la mastite. Introdotto per usi veterinari probabilmente verso la fine degli anni Ottanta, divenne in breve tempo estremamente popolare tra gli allevatori indiani, tanto da arrivare ad occupare, secondo Prakash, circa l’80 per cento del mercato dei farmaci per il bestiame.
Il diclofenac stava uccidendo gli avvoltoi. Se un avvoltoio si nutriva della carcassa di una mucca alla quale era stato somministrato il farmaco nelle precedenti 72 ore, moriva. Non subito, però: l’insufficienza renale arrivava dopo diversi giorni. Per questo, gli avvoltoi venivano ritrovati lontani dalle carcasse “avvelenate”. E per questo passò così tanto tempo prima che si riuscisse ad individuare la causa del loro declino. “È stato davvero come trovare un ago in un pagliaio”, ricorda Virani.
È stato davvero come trovare un ago in un pagliaio.
Per dimostrare la validità della teoria, il team del Peregrine Fund condusse degli esperimenti. Diedero il diclofenac agli avvoltoi per via orale e attraverso la carne di bufalo: gli avvoltoi morivano mostrando gli stessi sintomi trovati con la raccolta e l’analisi dei campioni in Pakistan. I risultati della scoperta vennero presentati nel 2003 e furono poi confermati dagli esperimenti condotti in India dalla Bnhs. La ricerca di Oakes e del Peregrine Fund aveva documentato e dimostrato, per la prima volta, che l’uso di un farmaco era responsabile per il disastroso collasso della popolazione di avvoltoi.
Nel 2006, il governo indiano decise di proibire il diclofenac per scopi veterinari (la legge entrò effettivamente in vigore solamente nel 2008). Gli avvoltoi, tuttavia, continuarono a morire. Col tempo, il team di Prakash intuì che gli allevatori avevano cominciato a somministrare agli animali il diclofenac prescritto per uso medico.
“E poi non c’è solo il diclofenac”, insiste Prakash. “Abbiamo scoperto che esistevano altri farmaci antinfiammatori in grado di uccidere gli avvoltoi”. Sono nomi piuttosto diffusi: ketoprofene, aceclofenac, nimesulide, flumixin. “Stiamo facendo pressione sul governo affinché ne vieti l’utilizzo, ma purtroppo ci sono anche le pressioni degli allevatori e dell’industria farmaceutica”.
Nel 2015, il governo indiano ha limitato l’uso medico del diclofenac, bandendo tutte le dosi superiori a 3 millilitri (ml) – la dose per una mucca è di circa 15 ml. Tutti gli altri farmaci sono ancora in uso.
Se spariscono gli avvoltoi
La scomparsa degli avvoltoi in India ha lasciato un grande vuoto, con gravi conseguenze anche per gli esseri umani. Non è un caso che i primi ad accorgersi della loro mancanza, negli anni novanta, furono gli abitanti dei villaggi rurali.
Secondo l’ultimo censimento condotto dal governo indiano, l’India possiede oltre 535 milioni di capi di bestiame, di cui 302 milioni di bovini. Per ragioni culturali, la loro carne spesso non viene consumata. La religione indù vieta il consumo di carne bovina, mentre per gli osservanti musulmani la carne può essere consumata solo se processata con il metodo halal. Insieme, le comunità indù (circa 80 per cento) e musulmana (13 per cento) costituiscono la maggioranza della popolazione indiana. Di conseguenza, le mucche vengono allevate per produrre latticini e per il cuoio ma, una volta scuoiate, le loro carcasse vengono molto spesso lasciate nei campi. Fino a poco tempo fa, a smaltirle in tempi rapidi ci pensavano gli avvoltoi.
Da quando gli avvoltoi sono quasi scomparsi, l’importanza di questa specie per le comunità rurali è emersa in maniera evidente. In India i sistemi di smaltimento sono carenti e disfarsi delle carcasse – che si tratti di bruciarle o seppellirle – costa tempo e denaro. Rende la vita più difficile anche a coloro che, nelle comunità rurali, si guadagnano da vivere racimolando le ossa lasciate nei campi dagli avvoltoi. Queste ossa vengono poi vendute a stabilimenti industriali, che le riducono in polvere e le riutilizzano per prodotti chimici di varia natura.
Ma i risvolti negativi non sono solamente di tipo economico: la scomparsa degli avvoltoi ha lasciato un vuoto ecologico impossibile da colmare. Senza di loro, le carcasse abbandonate alla putrefazione diventano un problema sanitario – “specialmente in paesi come l’India, in cui il clima è caldo e umido e dove mancano le adeguate strutture igienico-sanitarie” dice Prakash. Questo ha un’incidenza negativa sulla diffusione delle cosiddette water-borne diseases, le malattie trasmesse dall’acqua, come il colera. Ma c’è di peggio: senza avvoltoi, le carcasse vengono assalite dai cani selvatici.
I cani si nutrono di carcasse ma, a differenza di quanto accade con gli avvoltoi, funghi, batteri ed eventuali spore sopravvivono all’interno del loro organismo. “Quindi, contrariamente agli avvoltoi, i cani sono portatori di malattie che possono passare agli esseri umani”, spiega Prakash. “Questi cani selvatici sono piuttosto feroci, quindi possono facilmente attaccare gli esseri umani. Ecco perché abbiamo un’alta incidenza di rabbia (in India, ndr)”.
Le carcasse sono fonte di cibo preziosa per i cani, il cui aumento nel paese coincide perfettamente con la scomparsa degli avvoltoi. Tuttavia, controllarne la popolazione è impossibile: il cane selvatico è Bhairava, una reincarnazione di Shiva e, per questo, gli indù credono che uccidere un cane sia un’offesa alla loro divinità.
Nel decennio della grande moria di avvoltoi, dal 1992 al 2003, una stima indicava che la popolazione di cani selvatici in India era aumentata di un terzo, fino a raggiungere i 30 milioni. Se un tempo c’erano 10 cani ogni 100 avvoltoi, oggi il rapporto è capovolto. E questo è un problema perché i cani selvatici sono portatori di rabbia, una malattia letale.
In tutto il mondo, infatti, circa 59mila persone all’anno muoiono di rabbia, la maggior parte in Africa e in Asia. Di queste, il 99 per cento muore perché morse da un cane rabbioso; secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa il 40 per cento delle vittime sono bambini. In India, il numero di morti per rabbia è di circa 20mila all’anno. Questo significa che in India, dove si registrano oltre 17 milioni di morsi di cane all’anno, avvengono circa un terzo dei decessi per rabbia di tutto il mondo.
La crescita del numero di cani selvatici contribuisce ai rischi associati alla trasmissione della rabbia, e si stima che abbia aggiunto 34 miliardi di dollari ai costi sanitari dell’India tra il 1993 e il 2006. L’India, inoltre, spende circa 490 milioni di dollari all’anno per curare chi è stato morso con i trattamenti anti-rabbica.
La rabbia illustra perfettamente il concetto di “salute globale”, dall’inglese one health, l’idea che la salute degli esseri umani sia intrinsecamente legata a quella degli animali. Nel caso della rabbia, il legame è diretto. Il consenso tra gli esperti è che se il livello di vaccinazione nella popolazione canina è mantenuto al 70 per cento per un periodo di sette anni, il virus della rabbia scomparirà. Ovunque ci siano persone, ci sono i cani. Quindi, se si salvano i cani, si salvano gli esseri umani.
Un’assicurazione contro l’estinzione
Delle tre specie di avvoltoi autoctone restano meno di 20mila esemplari secondo gli ultimi dati disponibili. Di questi, probabilmente meno di un migliaio sono esemplari di Beccosottile, il più colpito. Di fronte alla concreta possibilità che si estinguessero, il governo indiano decise di creare dei centri di conservazione e riproduzione degli avvoltoi. Il primo fu istituito nel 2004 nei pressi di Pinjore, nello stato di Haryana, nel nord dell’India. Gli fu dato il nome di Jatayu, come il semidio avvoltoio degli indù.
Diretto dalla sua fondazione proprio da Vibhu Prakash, il Jatayu conservation and breeding centre prova a porre un freno all’estinzione degli avvoltoi facendo riprodurre gli avvoltoi in cattività. “Di sicuro non è la migliore opzione di conservazione per una specie”, dice Prakash “ma in passato aveva già salvato delle specie di rapaci a rischio. In quel momento, era la nostra unica scelta”.
Nel corso dei successivi quindici anni, sono stati aperti altri sette centri per la conservazione degli avvoltoi. I primi passi sembrano essere incoraggianti. Seppur in cattività, si sono già schiuse oltre 400 uova delle tre specie a rischio di estinzione. Assieme ai bandi imposti sull’utilizzo del diclofenac, i programmi di conservazione potrebbero aver fermato l’emorragia un attimo prima che fosse troppo tardi.
“È decisamente presto per dire che gli avvoltoi sono fuori pericolo, così come è troppo presto per dire che il loro numero sta tornando a salire” dice Prakash. Gli avvoltoi sono una specie che si riproduce lentamente: depongono un uovo all’anno e solamente dopo i cinque anni di età. Bisognerà attendere ancora per poter dire che il loro numero è in aumento. “Però possiamo dire che, dopo 15 anni, la popolazione di avvoltoi sta cominciando a stabilizzarsi”. Il pericolo rimane dietro l’angolo, perché il diclofenac continua ad essere utilizzato – seppur su scala inferiore rispetto al passato – e perché gli altri farmaci tossici restano in commercio. “Ed è per questo che i centri di conservazione restano imprescindibili: sono una sorta di assicurazione contro l’estinzione”.
Nei prossimi giorni, per la prima volta da quando è nato il Centro, degli esemplari delle specie a rischio verranno rimessi in libertà.
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Il momento è stato programmato con grande cura. Le voliere sono state costruite in modo tale che passasse il vento e che gli avvoltoi potessero entrare in contatto ed interagire con l’ambiente esterno – inclusi diversi esemplari liberi di avvoltoi dell’Himalaya, una specie meno intaccata dal farmaco. In seguito si è lavorato per creare, attorno al Centro, un’area dal raggio di cento chilometri in cui non venisse somministrato diclofenac ai bovini. Nel 2016 è stata fatta la prima prova, con due avvoltoi dell’Himalaya (una specie non a rischio) che erano vissuti nel centro per dieci anni. Nel giro di un mese avevano ricominciato ad alzarsi in volo, dopo quaranta giorni erano in grado di procacciarsi il cibo da soli. Poi si sono uniti ad un branco, e sono volati via.
Vibhu Prakash spera che questo avvenga di nuovo. Hanno deciso di liberare otto esemplari: sei sono nati in cattività e altri due in natura. “La nostra speranza è che facciano da guida agli altri per capire come procacciarsi il cibo ed evitare i predatori. Metteremo loro delle targhette per monitorarli. E poi non ci resta che aspettare e vedere cosa succede”. Se tutto andrà come previsto, i prossimi mesi potrebbero segnare un traguardo importante nella lotta per la conservazione degli avvoltoi in India.
Ma perché alla gente dovrebbe importare? Perché gli avvoltoi ricoprono un ruolo insostituibile all’interno dell’ecosistema e la loro sopravvivenza, in un mondo dove la diffusione di malattie infettive è una minaccia per tutti, è fondamentale anche per noi esseri umani.
Ha 300 anni e può essere visto persino dallo spazio. È stato scoperto nel Triangolo dei Coralli grazie a una spedizione della National Geographic society.
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