Azerbaigian, il partito al governo vince le parlamentari ma nel Paese della Cop29 non c’è democrazia

Il partito del presidente Ilham Aliyev conferma la maggioranza dei seggi, ma gli osservatori internazionali parlano di voto non democratico. Nuova ondata di repressioni nel petrol-Stato che a novembre ospiterà la Conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici

Nelle elezioni parlamentari anticipate che si sono tenute in Azerbaigian il primo settembre 2024 — le prime da quando il Paese l’anno scorso ha ripreso il controllo del territorio del Nagorno Karabakh conteso con l’Armenia — il partito al governo del presidente Ilham Aliyev ha mantenuto la maggioranza, assicurandosi 68 seggi su 125. Questi perlomeno i risultati parziali diffusi al termine dello spoglio del 91 per cento delle schede (i risultati definitivi saranno annunciati entro il 22 settembre). Ma nella sostanza poco cambia: il partito al potere del Nuovo Azerbaigian conferma il numero di seggi già occupati in parlamento, in una tornata elettorale caratterizzata da un’affluenza piuttosto bassa (37,27 per cento, il dato più basso registrato alle parlamentari da quando il Paese ha ottenuto l’indipendenza dall’Urss nel 1991), e da “un contesto politico e legislativo restrittivo che non consente un autentico pluralismo”, come ha denunciato l’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.

La scena politica azera è infatti dominata dal partito del Nuovo Azerbaigian del presidente Aliyev che, oltre a occupare quasi il 60 per cento dei seggi, può fare affidamento anche su un gruppo di schieramenti politici fedeli alla linea governativa. Se a ciò si sommano il controllo dell’informazione, sancito dalla legge sui media adottata nel 2022, la repressione delle libertà civili e delle voci critiche, il generale impoverimento del dibattito pubblico e l’indebolimento dell’opposizione politica registrati negli ultimi anni, il ritratto che emerge è quello di un Paese che Freedom House definisce “non libero”. 

In queste ultime elezioni, che dovevano svolgersi a novembre ma sono state anticipate per la Cop29, la Conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici che si terrà proprio in quel periodo nella capitale Baku, molti partiti di opposizione hanno deciso di boicottare il voto, come ha fatto il Fronte popolare dell’Azerbaigian, che non si è presentato alle elezioni parlando di totale assenza di trasparenza. L’altro grande partito di opposizione, Musavat, ha invece deciso di cambiare tattica e per la prima volta in quindici anni ha presentato i propri candidati, senza però ottenere nemmeno un seggio. I seggi rimanenti verranno dunque assegnati a candidati formalmente indipendenti e a partiti minori, che di fatto però sostengono il governo. 

Nonostante la presenza di 279 osservatori provenienti da 34 Paesi, non sono mancate le denunce di brogli e violazioni, e secondo il leader di Musavat, Arif Hajili, le votazioni “non si sono svolte in un ambiente democratico”. 

“Il regime autoritario in Azerbaigian si è consolidando nell’arco di molti anni e sarebbe anacronistico osservare il processo politico in corso attraverso il concetto di transizione democratica — ha commentato a LifeGate Laurence Broers, uno dei massimi esperti di politica del Caucaso, direttore del programma ‘Caucaso’ dell’organizzazione indipendente di peacebuilding Conciliation Resources, nonché co-fondatore di Caucasus Survey, la prima rivista scientifica dedicata a questa regione —. Dovremmo invece analizzare la politica dell’Azerbaigian facendo un confronto con altri regimi autoritari, e quindi chiedendoci con quale tipo di autoritarismo abbiamo a che fare, come funziona, come si legittima, quale ruolo hanno le istituzioni democratiche nel contribuire a consolidare questo regime. Nel Paese, ad esempio, esistono dei partiti d’opposizione, ma sono a tutti gli effetti esclusi dall’arena politica”.

Chi è il Presidente Ilham Aliyev

In carica dal 2003, rieletto per la quinta volta consecutiva nel febbraio 2024 con il 92 per cento dei voti, Ilham Aliyev è il protagonista indiscusso della scena politica azera. È nelle sue mani infatti che oggi si concentra il potere ereditato dal padre, Heydar Aliyev, uomo del Kgb che guidò il Paese sotto il dominio sovietico e fu insediato come presidente dopo un colpo di Stato militare nel 1993, in seguito alla disgregazione del blocco orientale.

In questi vent’anni di governo, oltre ad aver dato impulso al processo di modernizzazione del Paese, la cui economia si regge sugli idrocarburi (il gas e il petrolio costituiscono il 90 per cento delle esportazioni azere, e insieme formano il 60 per cento del bilancio pubblico), l’attuale presidente Ilham Aliyev ha blindato la sua poltrona estendendo il mandato presidenziale da 5 a 7 anni e rimuovendo il limite della rielezione del presidente oltre i due mandati. 

Azerbaigian
Il presidente azero Ilham Aliyev © Wikimedia Commons

La vittoria militare sui separatisti armeni del Nagorno Karabakh nel settembre 2023, con cui Aliyev oggi vanta il merito di aver “riunificato” il Paese, gli ha poi garantito un’importante consacrazione politica interna: una carta che piace a buona parte della popolazione, che da sempre vede gli armeni come storici avversari.

“Quando Ilham Aliyev fu nominato presidente, nel 2003, ci furono delle proteste di massa e la sua presidenza iniziò con una mancanza di legittimità — ha spiegato Laurence Broers —. Da allora Aliyev ha sempre cercato di legittimare la sua posizione, innanzitutto attraverso un processo di sviluppo socio-economico del Paese che con l’inaugurazione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan nel 2006 ha portato al boom del petrolio. I profitti furono enormi e ciò permise di introdurre programmi pubblici e sociali a beneficio di ampi settori della popolazione. Tutto ciò, unito a una strategia politica finalizzata a prevenire e a disarmare l’opposizione, consentì a Ilham Aliyev di ampliare il proprio consenso”.   

L’Azerbaigian e la politica estera 

Oggi, con la formazione del mondo multipolare di cui tanto si parla, l’Azerbaigian sta perseguendo una politica estera finalizzata a mantenere il più possibile buone relazioni con vari Stati, dalla Russia di Vladimir Putin, che poche settimane fa è stato in visita a Baku, alla Turchia di Recep Erdoğan, con cui si è ravvivata la percezione di una fratellanza turco-azera, fino all’Unione europea che punta a una partnership strategica per bypassare il gas russo.

“Non dobbiamo però commettere l’errore di individuare solo due binari possibili: pro-Russia o pro-Occidente — ha spiegato Laurence Broers —. Nel caso dell’Azerbaigian la situazione è molto più complessa: il Paese ha innanzitutto rapporti molto stretti con la Turchia, la quale a sua volta ha rapporti geopolitici con l’Occidente essendo un membro Nato, ma non sempre i suoi interessi coincidono con quelli occidentali; in secondo luogo Baku ha un rapporto molto stretto anche con l’Iran: non dimentichiamo infatti che l’Azerbaigian è un Paese a maggioranza musulmana, seppur laico. Per questo la contrapposizione ‘Russia/Occidente’ è inadeguata se vogliamo davvero capire tutte le sfumature delle posizioni azere”.

Sul fronte interno, invece, dopo il graduale consolidamento dell’autoritarismo registrato nell’ultimo ventennio attraverso strette repressive e leggi ad hoc, ultimamente il potere ha cercato di salvaguardare sé stesso attuando un nuovo giro di vite che ha portato all’arresto di pacifisti, ricercatori, studenti e giornalisti, perseguitati nell’indifferenza generale della comunità internazionale proprio alla vigilia della Cop29. Un disinteresse che si somma all’ipocrisia, denunciata da molti, di organizzare il più importante evento mondiale sul clima in un Paese la cui economia è basata quasi esclusivamente sui combustibili fossili.

La nuova ondata di repressioni

Il nuovo giro di vite delle settimane scorse non è altro che la coda di un’ondata repressiva più ampia iniziata nel 2014-2015 e rifiorita nell’estate 2023, che ha portato anche all’arresto di Gubad Ibadoghlu, un noto economista e attivista, collaboratore della London School of Economics, particolarmente critico verso l’industria dei combustibili fossili. Poco prima dell’arresto, Ibadoghlu — che oggi si trova ai domiciliari — aveva pubblicato un articolo con cui criticava le politiche dell’Azerbaigian in materia di petrolio e gas. 

Nel settembre dell’anno scorso il Parlamento europeo ha adottato una “risoluzione d’urgenza” in cui chiedeva il rilascio immediato e incondizionato di Ibadoghlu, affermando che la finalizzazione di un futuro accordo di partenariato Ue-Azerbaigian dovrebbe essere subordinata al rilascio di tutti i prigionieri politici. Secondo l’agenzia Turan, infatti, sarebbero almeno 300 i prigionieri politici nelle carceri azere. 

Tuttavia, nonostante le evidenti violazioni dei diritti umani e civili (Amnesty International parla addirittura di “atti vendicativi di rappresaglia, intimidazioni e minacce anche ai danni delle famiglie” dei prigionieri politici), l’Occidente strizza l’occhio a Baku per fare affari e aggirare il gas russo. Nell’estate 2022, la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen aveva firmato con il presidente azero Ilham Aliyev un accordo per raddoppiare in pochi anni le forniture di gas dall’Azerbaigian. 

Intanto i casi di cronaca si rincorrono e tra quelli più eclatanti c’è il recente arresto di Bahruz Samadov, ricercatore e attivista, accusato di tradimento verso lo Stato: rischia tra i 10 e i 15 anni di carcere. Secondo Amnesty International, a metterlo nei guai sarebbero stati i suoi articoli critici nei confronti della politica di Baku nel Nagorno Karabakh e i suoi legami con alcuni attivisti armeni. 

“Individuare le reali cause di questa nuova ondata repressiva non è facile — ha commentato a LifeGate Sevinj Samadzade, femminista azera e attivista per la pace, dottoranda in ricerca alla Ghent University in Belgio —. Innanzitutto, quando un regime cerca in tutti i modi di preservare il proprio potere, arriva a un livello di paranoia tale che ogni cosa viene vista come un pericolo. In secondo luogo, la crescita dei social network ha facilitato la diffusione di alcune idee, e da lì nasce la necessità di tagliare il più possibile il dialogo e i contatti tra le persone, nel tentativo di avere il controllo sulle informazioni che vengono messe in circolazione. In terzo luogo, non escludo che si voglia fare ‘pulizia’ in vista della Cop29 per trasmettere al mondo l’immagine di un Paese stabile”.

Ciò che stupisce, innanzitutto è che gli arresti delle ultime settimane hanno colpito in buona parte figure legate al mondo accademico e  attive nella comunità di “peace builders”, ovvero di “promotori della pace” che cercano di creare un dialogo con i vicini armeni: vista l’impossibilità per gli uni e per gli altri di varcare i confini del Paese limitrofo, questi attivisti azeri e armeni si riuniscono in Paesi terzi, come la Georgia o in qualche Stato d’Europa, nel tentativo di trovare dei punti in comune nella complessa visione divergente della Storia che ha portato questi due popoli a farsi la guerra.

Inoltre, a differenza di qualche anno fa, oggi la società civile azera è più debole e frammentata, e per questo non sembra rappresentare un reale pericolo per l’establishment. Questi gruppi di “peace builders”, poi, non si riuniscono con scopi eversivi, come ha spiegato a LifeGate Cesare Figari Barberis, esperto di politica del Caucaso, dottorando in Relazioni internazionali presso il Graduate Institute di Ginevra: “Azeri e armeni hanno narrative molto diverse sul passato storico e sulla guerra, e questi attivisti si riuniscono semplicemente per riavvicinare queste due comunità, tra le quali manca qualsiasi forma di contatto e di dialogo: condividono idee per possibili piani di pace, cercano compromessi… Non è nulla di eccessivo né eversivo, non si possono nemmeno definire incontri con fini politici ambiziosi, per questo la reazione che c’è stata è forse un po’ sproporzionata”.

L’auspicio, dicono gli esperti, è che la Cop29 possa aprire le porte a una grande amnistia, per liberare i prigionieri politici in vista del summit che accenderà i riflettori del mondo su questo Paese. 

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