
In un nuovo decreto previsti limiti più stringenti per queste molecole chimiche eterne, ma ancora superiori a quelle indicate dalle agenzie ambientali.
I rifiuti plastici sulle coste di Bali sono sempre di più: un fenomeno che si aggrava di anno in anno e che rischia di dare il colpo di grazia al turismo.
Un paradiso, sì, ma di plastica. In questo si stanno trasformando le spiagge di Bali, una delle mete esotiche più note e amate dai turisti di tutto il mondo. Secondo il quotidiano britannico The Guardian, negli ultimi giorni le piogge monsoniche e i venti che soffiano da ovest verso est avrebbero portato grandissime quantità di rifiuti plastici marini sulle principali spiagge dell’isola indonesiana, ovvero Kuta, Legian e Seminyak. A detta dell’agenzia per l’ambiente e i servizi igienico-sanitari della zona di Badung, una delle più turistiche di Bali, in soli tre giorni sarebbero state raccolte circa 90 tonnellate di plastica. Una ulteriore piaga per un settore, quello turistico, divenuto il principale motore dell’economia balinese e ora fermo causa pandemia di coronavirus.
La situazione, certo, non è nuova: Denise Hardesty, ricercatrice dell’Agenzia nazionale delle scienze australiana (Csiro) ed esperta di inquinamento da plastica, ha tenuto a precisare che il problema del beach litter affligge l’arcipelago indonesiano da anni nel periodo monsonico. Tuttavia, nell’ultimo decennio il fenomeno ha visto un forte peggioramento, dovuto molto probabilmente all’aumento costante della quantità di plastica prodotta nel mondo e di rifiuti plastici dispersi nell’ambiente.
Basti solo ricordare che, se negli anni Sessanta venivano prodotte 15 milioni di tonnellate di questo materiale, oggi ne vengono realizzate oltre 300 milioni all’anno, di cui oltre otto milioni dispersi negli oceani del globo. La stima, secondo il Wwf, è che negli oceani del mondo vi siano oltre 150 milioni di tonnellate di plastica.
Sempre secondo il quotidiano britannico, a giocare un ruolo importante nell’inquinamento delle spiagge balinesi sono anche i cattivi sistemi di smaltimento locali. A detta degli esperti, infatti, molti dei rifiuti trovati sulle spiagge non provenivano da lontano. Per questo i gruppi ambientalisti indonesiani stanno lavorando per sensibilizzare la popolazione a un minore utilizzo della plastica. Inoltre, Csiro sta lavorando per implementare un sistema di monitoraggio con telecamere e intelligenza artificiale per tracciare i rifiuti e identificare i punti di provenienza.
Trovare una soluzione per ridurre il quantitativo di plastica sulle spiagge balinesi è d’obbligo anche per garantire una buona ripartenza del settore turistico alla fine della crisi: dal 2020, a causa della pandemia, sull’isola sono consentiti solo gli spostamenti interni. Bali è però una delle mete più gettonate al mondo – nel 2017 ha “vinto” il Travelers’ choice destinations awards della piattaforma per viaggiatori Tripadvisor e nel 2020 si è piazzata al quarto posto – ma è anche una di quelle prese maggiormente d’assalto dal turismo di massa.
Nel 2018 i turisti sono stati 5 milioni, una cifra di poco superiore al numero di abitanti totali dell’isola: una pressione seppur necessaria all’economia del paese, ormai poco sostenibile, con la progressiva distruzione degli habitat e l’aumento dell’inquinamento. Che il fermo causato dalla pandemia e il progressivo inquinamento delle coste siano il pretesto per ripensare al turismo sull’isola in chiave più sostenibile?
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