Bambini ad alto contatto: così diventano adulti indipendenti
Crescere dei figli ad alto contatto significa viziarli, oppure aiutarli a diventare autonomi e sicuri di sé?
Fortunati e amati incondizionatamente, oppure viziati e iper coccolati. Così, a seconda dei punti di vista, vengono di norma definiti i bambini cresciuti “ad alto contatto”, uno stile di genitorialità che prevede, di solito ma non per forza, l’allattamento a richiesta e “a termine”, il portare in braccio o in fascia, l’autosvezzamento, la condivisione della camera da letto (o del letto stesso) con i genitori.
Alto contatto: cos’è
Più in generale e più propriamente, si tratta di una scelta educativa che si propone di riconoscere e assecondare i bisogni del neonato e del bambino, considerando le sue richieste istintive (stare in braccio, dormire accanto alla mamma e al papà, mangiare quello che mangiano loro, attaccarsi al seno a prescindere dalle necessità strettamente alimentari) delle esigenze naturali e fisiologiche, e non delle cattive abitudini o, peggio, dei “vizi” da scongiurare. Per molti genitori, inoltre, la scelta del cosiddetto alto contatto rappresenta anche un ritorno a pratiche di “maternage” più naturali e sostenibili, una sorta di recupero di antichi istinti e consuetudini ancestrali, comuni alla maggioranza dei mammiferi, a cominciare dai primati.
Alto contatto: gli studi
Il primo a parlarne in termini scientifici è stato lo psicologo britannico John Bowlby, che nel secondo dopoguerra ha teorizzato la cosiddetta teoria dell’attaccamento (“attachment parenting” in inglese), che analizza l’importanza del legame che un bambino stabilisce nei primi mesi e anni di vita con gli adulti di riferimento, a cominciare dalla madre. L’assunto, in sintesi, è che un bambino cresciuto a stretto contatto con i genitori, coinvolto nelle loro attività quotidiane e abituato a trovare una risposta tempestiva ed efficace ai propri bisogni fisiologici, tenderà più facilmente a diventare un giovane e poi un adulto sicuro di sé e indipendente. Imparerà, in altri termini, a fidarsi delle proprie capacità di comunicazione e del prossimo, perché ha sperimentato, negli anni cruciali della prima infanzia, che basta chiedere – aiuto, cibo, conforto, contenimento – per trovare una risposta solerte ed empatica.
Negli ultimi decenni, lateoria dell’attachment parenting è stata oggetto di numerosi studi, in primis quelli dei pediatri William Sears e Carlos Gonzales, e di altrettante polemiche, da parte di chi ritiene invece preferibile un approccio basato sul “rigore” e sulla precoce educazione all’autonomia (vedi, ad esempio, i cosiddetti metodi ad estinzione graduale per abituare bambini di pochi mesi a dormire nel proprio letto o nella propria camera). Il web, in particolare, è teatro quotidiano di scontri più o meno feroci tra fautori e detrattori dell’alto contatto, sempre pronti a giurare sul valore assoluto della propria personale esperienza.
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