I bambini sommersi d’impegni sono meno autonomi. Perché manca la noia
I bambini sommersi d’impegni sono meno autonomi. Perché manca la noia
I bambini sommersi d’impegni faticano a diventare autonomi, mentre quelli che si industriano a passare il loro tempo sviluppano la capacità di trovare soluzioni. Vittoria Maioli Sanese, psicologa della coppia e della famiglia, ci spiega perché.
I bambini sommersi d’impegni sono meno autonomi. Perché manca la noia
C’era una volta il tempo libero. Interi pomeriggi passati a inventare giochi e costruire mondi immaginari e bambini liberi di sciogliere le briglie della fantasia per riempire le proprie giornate. Una realtà oggi decisamente fuori moda e che ha ceduto il posto a una vera e propria corsa dei genitori a infarcire le agende dei figli di impegni e attività di ogni sorta. Dalle discipline sportive alla musica, dalle lingue straniere ai laboratori artistici i bambini di oggi hanno vite fitte di impegni, in cui trovare un buco per un semplice giretto al parco o una merenda tra amichetti diventa spesso un’impresa titanica.
Ma che conseguenze ha quest’abitudine sulla crescita e sullo sviluppo dei bambini? Diversi psicologi e studiosi si sono posti la domanda e condotto studi che hanno portato a interessanti scoperte. Tra questi quello della psicologa Yuko Munakata della University of Colorado, che nel 2014 pubblicò sulla rivista Frontiers of Psychology i risultati della sua indagine scientifica. Sottoponendo 70 bambini di 6 anni a una serie di test cognitivi la studiosa riscontrò che quelli maggiormente impegnati in attività extrascolastiche organizzate dimostravano una minore autonomia esecutiva nel perseguimento di obiettivi. In pratica i bambini sommersi d’impegni e, dunque, meno abituati a gestire liberamente il proprio tempo acquisirebbero minore autonomia, con vere e proprie conseguenze sullo sviluppo neurale. Ne abbiamo parlato con Vittoria Maioli Sanese, psicologa della coppia e della famiglia, che per oltre 40 anni ha guidato gruppi di riflessione e di formazione per genitori, educatori e psicologi, svolgendo un lavoro di ricerca sulla coppia e sulla famiglia, da un punto di vista psicologico, esistenziale, sociale, culturale e antropologico. La sua lunga esperienza è raccolta in alcune pubblicazioni, tra cui il libro Ho sete, per piacere. Padre, madre, figli. Un’esperienza in aiuto ai genitori. (Edizioni Marietti 1820)
Lei segue le famiglie da molti anni, ha potuto riscontrare un costante aumento negli impegni extrascolastici dei bambini? Sì, lo riscontro senz’altro. I bambini oggi hanno tutto il tempo libero impegnato fin da piccolissimi.
Che cos’ha generato questa situazione?
Per capirne le ragioni bisogna mettersi nei panni dei genitori di oggi. Difficilmente una madre riesce a prendersi, con agio, tutto il tempo e le possibilità della maternità. Spesso rischia di perdere il lavoro se non rientra in tempi brevi, per cui ha bisogno da subito di affidare il figlio a qualcuno. Quindi penso che la logica sotto a questa scelta sia quella di trovare dei luoghi in cui i bambini possano stare. Una sorta di “babysitteraggio” allargato, delegato alle società sportive, alla scuola di musica e a tutte le varie attività.
C’è anche un’ansia da parte dei genitori di far acquisire competenze ai figli?
Sì, l’esigenza di trovare una sistemazione ai figli è solo una delle ragioni. I genitori, spesso, hanno anche l’ansia che i figli imparino a fare, stare ed essere in un certo modo e secondo un certo schema. Quindi l’urgenza diventa quella di educare i bambini a una prestazione e, di conseguenza, di riempire i loro pomeriggi di attività. Ma non solo. La delega che i genitori fanno nei confronti di allenatori, istruttori e tutti coloro a cui affidano i figli, a volte è anche una delega protettiva. Mi riferisco al problema dei “bambini protetti”, che si tenta di tenere in una nicchia, al riparo da ogni frustrazione e delusione, che sia un rimprovero della maestra o il confronto coi compagni. Questo porta al fenomeno dell’autocarcerazione e dell’isolamento.
Come mai, come riscontrano anche studi scientifici, i bambini troppo impegnati in attività organizzate risultano poi meno autonomi? Perché sono bambini “sostituiti”. Cioè c’è sempre qualcuno che pensa e organizza tutto al posto loro. Non sono bambini che devono industriarsi a passare il loro tempo. In questo modo diventano incapaci di trovare soluzioni. Le neuroscienze hanno fatto scoperte spettacolari, secondo cui, veramente, se non fai sviluppare il bambino in un certo modo il suo cervello si ferma.
La tanto temuta noia, che i genitori spesso tentano di evitare ai propri figli, è in realtà una preziosa alleata quindi?
Sì, e questo atteggiamento provoca conseguenze serie. Non tanto perché i bambini non diventano autonomi, ma, piuttosto, perché impedisce a determinate capacità cerebrali di svilupparsi correttamente. Mi riferisco alla capacità di creare, di inventare, di costruire. Cose che possono venire fuori solo dal fatto che nessuno ti dica quello che devi fare.
Quanto è importante invece, sul fronte opposto, stimolare bambini pigri o introversi, che non amano praticare sport o altre attività?
Innanzitutto dico che un bambino non nasce pigro, ma è reso pigro. Io in questo sono molto drastica e parto da come il genitore oggi interpreta il suo essere genitore, ovvero facendo l’educatore o l’animatore. Invece di cercare risposte tecniche ai problemi, il genitore dovrebbe innazitutto partire da sé e acquisire una coscienza generativa, cioè diventare consapevole che è proprio modo di essere e di affrontare la vita che genera e influenza il figlio.
Può farci qualche esempio?
Oggi i genitori spesso non fanno richieste ai figli, cioè non guardano alle loro capacità. Per esempio: un bambino di quattro anni è già capace di apparecchiare, ma non gli viene chiesto di farlo. E non si tratta di aumentare la sua autonomia, ma di riconoscere, con dignità, la bellezza delle sue capacità raggiunte e confermarlo nelle sue capacità. Quando io, madre o padre, ti vedo capace di fare qualcosa non ti sostituisco, ma, spronandoti a fare, ti aiuto a crescere. Poi è chiaro che il figlio a un certo punto risponderà “no, non ho voglia”. Ma è lì che sta la bellezza del rapporto con lui e dell’aiutarlo a fargli trovare la bellezza del dialogo, dell’obbedienza e dell’ascolto. Insomma, io vorrei togliere tutto il rapporto genitori-figli dall’alveo malefico delle prestazioni, per riportarlo all’essere.
Quindi il nodo cruciale non è tanto affannarsi a trovare le soluzioni, quanto prendere coscienza del proprio ruolo genitoriale?
Sì, il genitore deve avere la coscienza che la vita del proprio figlio passa attraverso di lui. Cioè il genitore è come un varco costante, attraverso il quale passano le emozioni, le capacità e i sentimenti dei figli, fino alla definizione di sé. Le cose che i bambini vivono hanno il valore che i genitori danno loro. Riempire il tempo dei figli, iscrivendoli ad un’attività non è male di per sé, ma quello che manca spesso, secondo me, è l’implicazione personale del genitore, che, con il suo sguardo attento, aiuta davvero il bambino a crescere. Poi, così facendo, capisco anche che mio figlio ha bisogno di andare di più con gli amici o di giocare a pallone, però il punto di partenza deve essere sempre un’implicazione personale del genitore.
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