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Nel corto Baradar l’incredibile epopea di due fratelli profughi afgani
Ispirato da una storia vera, il corto Baradar fotografa (come solo il cinema sa fare) drammi e speranze dei migranti. La storia, la trama e l’intervista al regista Beppe Tufarulo.
Due fratelli corrono tra i vicoli di una città trasportando un canotto. Ridono e scherzano come due bambini qualunque, diretti verso la spiaggia. Inizia così Baradar, potentissimo cortometraggio diretto da Beppe Tufarulo (disponibile su RaiPlay) e ispirato alla storia vera di Alì e Mohammed Ehsani, due fratelli afgani resi orfani e profughi dalla guerra civile e costretti, dopo anni di rocambolesche peregrinazioni, a separarsi, nell’estremo tentativo di conquistarsi un futuro.
La trama di Baradar
Proprio su questo momento si focalizza Baradar, che in quindici minuti riesce ad arrivare dove la cronaca fatica a farsi largo. I volti dei due protagonisti e la sensibilità dell’autore sono “armi micidiali”, in grado di risvegliare cuori sempre più anestetizzati di fronte al dramma dei migranti e, insieme, capaci di raccontare una storia universale di amore fraterno.
Merito anche del singolare intreccio tra realtà e finzione venutosi a creare grazie alla scelta degli interpreti. Non due attori professionisti, ma due ragazzi afgani, Nawid e Danosh Sharifi, fratelli per davvero e con alle spalle una storia simile a quella di Alì e Mohammed. “Lasciare la nostra terra era già stato un film per noi”, hanno raccontato Nawid e Danosh, che al momento delle riprese avevano diciotto e quindici anni ed erano appena arrivati in Italia per raggiungere il fratello maggiore. “Arrivare a Roma per noi ha significato riabbracciare ciò che restava della nostra famiglia, ma anche vivere un’esperienza incredibile che ci ha dato l’impulso per integrarci, imparare una nuova lingua e darci da fare”.
Seppur con tutte le difficoltà del caso, il regista ha ammesso che lavorare con attori non professionisti gli ha permesso di dare al film l’energia, l’imprevedibilità e la veridicità che cercava, creando un sottile equilibrio tra realtà e finzione.
Poiché credo fermamente nel potere del linguaggio cinematografico e nel suo valore educativo, è stato fondamentale per me dare a questo film una dimensione profondamente intima e umana, mantenendo uno stile di regia essenziale. La macchina da presa segue senza interruzioni i due fratelli nei loro ultimi giorni insieme e affronta le scene più drammatiche con semplicità e senza enfasi, come nella vita reale, facendo emergere l’intensità e l’autenticità dei protagonisti.
E così, in questo equilibrio perfetto tra realismo, potenza narrativa e ricerca estetica, il corto raggiunge vette dove pochi riescono ad arrivare. A dimostrarlo sono anche i tanti premi e la calorosa accoglienza ricevuti dal film a decine di festival internazionali, come il Giffoni 2019, i David di Donatello 2020 e l’opportunità di qualificarsi tra i candidati ai prossimi Oscar 2021 (che quest’anno si terranno il 25 aprile, con due mesi di ritardo rispetto al solito).
Da un libro al grande schermo
A raccontare la sua storia è stato lo stesso Alí Eshani nel libro, scritto insieme a Francesco Casolo, Stanotte guardiamo le stelle (Feltrinelli, 2016). Un successo editoriale con più di 20mila copie vendute, adottato dalle scuole di tutta Italia e che ha portato gli autori a intraprendere un lungo tour in giro per lo Stivale e Alí ad essere invitato anche al Parlamento italiano ed europeo. Nel libro, Alí, che oggi ha 31 anni, si è laureato in giurisprudenza e insegna in una scuola di Roma, racconta il suo incredibile e drammatico viaggio da Kabul all’Italia. Un’odissea simile a quella di tanti, durata cinque anni e durante la quale Alì ha dovuto affrontare anche la dolorosa separazione da suo fratello maggiore Mohammed.
Ho capito che quello che stavamo scrivendo non era solo la storia di Ali, ma un modo per onorare chi non ce l’ha fatta e per dare forza a chi è arrivato in Europa ma fatica a costruirsi un futuro. Ci siamo deliberatamente tenuti lontani da qualsiasi giudizio politico o ideologico per ritrarre i fatti puri, sapendo che la sincerità permette di entrare in contatto con tutti, affrontando la vera essenza della nostra umanità.
La storia dell’epopea di Alí
Le peripezie di Alí e Mohammed iniziano negli anni ’90, in una Kabul devastata dalla lotta tra fazioni, ma non ancora in mano ai talebani. Alì (8 anni) e suo fratello Mohammed (17 anni) non hanno mai conosciuto altro che la guerra, ma il padre ha sempre raccontato loro dei giorni in cui a Kabul la vita era diversa, si andava al cinema e ci si poteva divertire.
Quando, un giorno, un razzo riduce in macerie la loro casa, uccidendo i genitori, i due fratelli decidono di fuggire e di mettersi in viaggio verso l’Europa, alla ricerca di un luogo libero e pacifico come quello descritto nei racconti del padre.
La loro fuga li porta prima in Pakistan, poi in Iran e infine in Turchia, dove Mohammed lascia il fratellino, partendo a bordo di un canotto per cercare di raggiungere la Grecia. Il suo è un gesto folle e generoso: arrivato dall’altra parte, potrà guadagnare i soldi per permettere ad Alí di raggiungerlo in modo più sicuro. L’impresa però fallisce e Mohammed sparisce per sempre, inghiottito dal mare.
Alí, a soli dieci anni, si trova così a doversela cavare completamente da solo, in una città come Istanbul e a inseguire il suo sogno di salvezza anche in nome di suo fratello. Un’impresa per noi inconcepibile, che mette i brividi al solo pensiero, ma con un risvolto pieno di speranza. L’epopea di Alí durerà altri tre anni, prima di condurlo in Italia (dopo una drammatica traversata in mare e un lungo tragitto compiuto aggrappato per ore sotto un camion). Qui inizierà per lui un nuovo capitolo, che gli offrirà finalmente la speranza di una vita libera e dignitosa.
La sua storia di coraggio, sopravvivenza e determinazione – così emblematica della condizione di tanti – ha dato vita anche a un secondo capitolo letterario, I ragazzi hanno grandi sogni (Feltrinelli, 2018) con cui Alí, sempre insieme a Francesco Casolo, racconta la sua “seconda vita” in Italia.
Conversazione con il regista di Baradar, Beppe Tufarulo
Come ti sei imbattuto nella storia di Alí e perché hai deciso di raccontarla?
Tutto è nato dalla mia amicizia con Francesco Casolo, coautore del libro Stanotte guardiamo le stelle, che racconta il viaggio di Alí dall’Afghanistan all’Italia. Da tempo desideravamo lavorare insieme e, quando ho letto il suo libro, ho subito pensato che fosse una storia universale e immediata da poter raccontare. Una storia insieme di disperazione e di speranza.
Perché un cortometraggio e non un film?
Innanzitutto per questioni produttive. E poi è stata anche una scommessa. Volevo riuscire a raccontare una storia fortissima in pochi minuti. Riassumere cinque anni di viaggio non avrebbe avuto senso, perché un cortometraggio non può essere un trailer, ma una storia autocompiuta. Allora ho pensato di cristallizzare solo il momento secondo me più intenso e significativo di tutta la vicenda: quello in cui Alí e Mohammed si separano. L’ho immaginato come una fotografia della complicità e dell’amore tra i due fratelli e, insieme, una metafora di tutto il drammatico percorso fatto insieme fino a quel momento.
Visto anche il successo del corto, avete pensato di realizzare un lungometraggio in futuro?
Sì, ci piacerebbe poter raccontare la vita di Alí in Italia, che è già stata ripercorsa nel libro I ragazzi hanno grandi sogni. Quando arrivò nel nostro Paese, nel 2003, Alí aveva 12 anni, era completamente solo e non conosceva una parola di italiano. Tra mille difficoltà però è riuscito a studiare, a laurearsi in giurisprudenza e oggi lavora come insegnante in una scuola superiore di Roma. Una storia piena di speranza.
Come hai scelto i due interpreti per il tuo corto Bardar?
Li ho conosciuti nel 2019, quando erano appena arrivati in Italia dall’Afghanistan per ricongiungersi col fratello maggiore, che era già qui e che conosceva Alì. Tramite lui ci siamo incontrati e poi con il suo aiuto e quello di un mediatore (loro non parlavano italiano) siamo riusciti a girare il corto che è in lingua dari. La loro vicenda famigliare era per molti versi simile a quella di Alì e Mohammed e il fatto che fossero fratelli ha aiutato molto a creare quel clima di complicità e naturalezza che serviva alla storia. All’inizio probabilmente non si rendevano neanche bene conto di quello che stava succedendo, ma sicuramente è stata una bella esperienza. Siamo andati a girare in Puglia, dove abbiamo ricreato l’ambientazione di una città che richiama le atmosfere arabe. Oggi vivono a Roma, non hanno una vita facile ma stanno studiando e lavorando per crearsi un futuro.
Pensa che su un tema come quello dell’immigrazione il cinema possa aiutare a sensibilizzare un po’ di più l’opinione pubblica?
Sì, più che altro credo possa funzionare con le nuove generazioni, per le quali il cinema può avere anche un valore didattico. Penso che questo tipo di storia, tradotta in immagini, possa aiutare bambini e ragazzi a capire meglio alcune cose. L’ho visto accadere a festival per ragazzi come al Giffoni, per esempio, dove anche le giurie sono composte da bambini.
Quali sono state le soddisfazioni più grandi che ha avuto grazie a Baradar?
Sicuramente l’accoglienza che ha ricevuto in tante nazioni diverse e il fatto che molti festival continuino a chiedercelo e a programmarlo. Mi fa piacere anche che molti dei premi che ha ricevuto siano arrivati dal pubblico. Un’altra grande soddisfazione è stata essere inclusi nella cinquina ai David di Donatello.
Oggi Baradar è in corsa anche per le selezioni degli Oscar. Che effetto fa?
Io non credo minimamente che ci siano possibilità reali, perché ci sono veramente tantissimi film molto belli che competono. Però certamente il fatto di essere arrivati fino a lì e di aver vinto cos’ tanti premi in giro per il mondo è una grandissima soddisfazione.
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