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Bargny, una città assediata da una forma di sviluppo superata
In Senegal gli attivisti di un comune della periferia di Dakar minacciato da cambiamenti climatici e industrializzazione sfrenata lottano per non sparire.
Bargny è un comune di 70mila abitanti, nato da un antico villaggio di pescatori di etnia Lebou e situato a 35 chilometri a sud della capitale del Senegal, Dakar. La cittadina, che era un piccolo paradiso sulla costa un tempo frequentato anche dai turisti stranieri, oggi è a un passo dall’essere inghiottita dalla capitale per trasformarsi in un sobborgo industriale inquinato.
“È come se si volesse cancellare Bargny dalla cartina geografica. Ci chiedono sacrifici senza darci nulla in cambio”, afferma Cheikh Fadel Wade dal tetto di un palazzo circondato da un contesto cementificato e polveroso. Cheikh è il coordinatore delle comunità minacciate da sfratti e inquinamento di Bargny, e più di ogni altro è a conoscenza delle sofferenze della popolazione. “È un processo di logoramento lungo con cui ci hanno tolto tutto lentamente, lavoro, spazio vitale e salute, e non abbiamo ricevuto nulla. A Bargny c’è solo un centro sanitario, eppure ci costringono a vivere in un area inquinata”.
Terre confiscate, impoverimento delle risorse, inquinamento ambientale e perdita di attività di sostentamento come la pesca e l’agricoltura a vantaggio dello sviluppo della capitale: tutti effetti ormai conclamati che vanno avanti da tempo e affliggono una comunità che lotta per non sparire.
È come se si volesse cancellare Bargny dalla cartina geografica.
Negli ultimi anni le minacce sono aumentate per via dei progetti lanciati dal governo senegalese con il piano Senegal emergente voluto dal presidente Macky Sall. Un progetto ambizioso che vuole puntare a far emergere il Senegal economicamente a livello mondiale, entro il 2035, attraverso l’adozione di forme di sviluppo legate a infrastrutture moderne, poli industriali e urbani e all’attrazione d’investitori stranieri. Promesse ammalianti e idee seducenti non prive di conseguenze, come testimonia il caso Bargny, dove la popolazione è stata dapprima estromessa dalle decisioni che riguardavano i loro diritti, per poi finire con l’essere considerata quasi un intralcio alle ambizioni del Paese.
Bargny è una città assediata
Bargny è “assediata” da ogni direzione. A nordovest c’è la Sococim, uno dei più grandi cementifici dell’Africa occidentale che ha iniziato la produzione già nel 1948 in epoca coloniale, per poi incrementare enormemente l’attività arrivando a 3,5 milioni di tonnellate di cemento all’anno con un ampliamento delle sue cave che hanno occupato 462 ettari di terre un tempo coltivate. L’imponente stabilimento causa alte emissioni di CO2 nell’aria oltre che spargere ingenti quantità di polvere in un’area densamente abitata.
A nordest il governo senegalese ha fatto partire cantieri enormi nel 2014 per realizzare il grande polo urbano di Diamniadio, a metà strada tra Dakar e l’aeroporto internazionale Blaise-Diagne (Aibd) e percorso da una nuova autostrada e dal treno elettrico Dakar-Diamniadio (Ter). Si tratta del fiore all’occhiello del progetto del oresidente Sall fatto di palazzi residenziali e amministrativi, sale conferenze, stadi e alberghi destinati chiaramente alle classi più agiate e ad investitori stranieri. I cantieri occupano 1.644 ettari di terra coltivabile, il 70 per cento dei quali sono stati espropriati al comune di Bargny e ai suoi cittadini. Secondo i progetti del governo, il polo è solo l’inizio di una grande città in un Senegal utopico, oggi afflitto da incertezza economica e sociale, e che hanno fatto esplodere violente proteste negli ultimi mesi.
Ma i progetti di sviluppo più dannosi per i bargnois e per l’ambiente stanno avanzando da sudest. Prima fra tutti la controversa centrale a carbone chiamata Sendou I da 125 megawatt (MW), il cui progetto contrario ad ogni visione di sviluppo sostenibile è stato lanciato nel lontano 2008 con studi d’impatto ambientale discutibili e finanziato anche dalla Banca africana di sviluppo (Afdb).
Contro la centrale estremamente inquinante e situata a meno di 500 metri da abitazioni e strutture pubbliche, in piena violazione della legge senegalese vigente (come del resto la sopracitata Sococim), si è scagliata l’intera comunità che è riuscita a bloccare l’inizio delle attività salvando quelle produttive come l’affumicazione del pesce portata avanti dalle donne.
L’incubo non è però finito, perché il governo ha recentemente annunciato la riconversione della struttura in una centrale a gas. In questa direzione tutta la zona è minacciata dall’industria pesante, perché su circa 100 ettari di terreno, sorgerà l’altrettanto potenzialmente inquinante centro siderurgico Tosyali, a firma turca. I lavori partiranno a novembre.
Inoltre, poco più in là della centrale, è iniziata da qualche anno la costruzione del polo portuale minerario Bargny-Sendou destinato a gestire i prodotti petroliferi e minerari del Paese, costato 520 milioni di dollari e la cui consegna è prevista per marzo 2022. Anche questo progetto, che ha portato all’ulteriore esproprio di terre della côte bargnoise e rappresenta una minaccia per la pesca (uno dei settori più importanti per la sussistenza economica in Africa occidentale), è solo l’inizio di un piano ancor più ambizioso e potenzialmente impattante. Il mastodontico porto in acque profonde di Ndayane su 1.200 ettari, poco distante da Bargny, con cui il governo vuole rilanciare l’importanza commerciale di Dakar sul continente, indebitandosi per milioni di dollari e mettendo in serio pericolo le comunità e l’ecosistema marino della zona.
La minaccia dei cambiamenti climatici
Come se tutto questo non fosse già abbastanza per gli abitanti di Bargny, nel corso degli anni anche l’innalzamento degli oceani dovuto al riscaldamento globale ha portato a un’altra minaccia da sudovest. Da anni l’erosione delle coste sta distruggendo le abitazioni dei pescatori del quartiere Miniam, il più antico della cittadina, lasciando centinaia di persone senza un tetto. Il governo senegalese ha promesso più volte di intervenire ricollocando gli abitanti, ma non c’è mai stato davvero un seguito. Tranne nel 2007 quando si presero accordi per realizzare Miriam I e II su 1.433 appezzamenti che sarebbero stati dati alle famiglie minacciate. Ironia della sorte, due anni dopo l’ex presidente Abdoulaye Wade destinò quella stessa area alla centrale a carbone.
La storia recente di Bargny è piena di ingiustizie e la sua comunità sembra essere chiusa in una morsa letale. Tuttavia alcuni attivisti, spinti dallo spirito di sopravvivenza e appoggiati dalla popolazione, continuano a lottare per i diritti degli abitanti. Cheikh Fadel Wade e al altri militanti cittadini organizzano proteste e azioni legali internazionali che hanno avuto grande successo.
“Noi bargnois abbiamo capito che non potevamo aspettare inermi perché il piano di sviluppo che hanno in mente non ci include. Così ci siamo mossi rivolgendoci all’estero e ai finanziatori di questi progetti per guastare i loro piani”, afferma mentre mette in ordine alcuni fascicoli sulla sua scrivania: “Ha funzionato con la centrale a carbone e secondo me funzionerà ancora”.
I giovani attivisti lottano per non sparire
Seppur con mezzi ridotti, sono anche e soprattutto le giovani generazioni ad essersi attivate quando hanno iniziato a sentire il loro futuro minacciato. Ne è un esempio la giovane cantante rap Diarra Cissé alias “Sister Lydia”, che da tempo denuncia le ingiustizie e sensibilizza la popolazione tramite la sua musica e la piccola emittente radio-televisiva social SLTV-Bargny gestita assieme ad altri giovani bargnois.
“Con queste nuove forme di attivismo possiamo ottenere molti risultati. I giovani si sono svegliati e vogliamo farlo sentire al governo in questo modo”, spiega mentre è intenta a preparare la prossima diretta musicale con alcuni ospiti invitati per discutere delle ultime novità cittadine. “Sono fiera della mia città e della sua storia. Non voglio che scompaia per sempre sotto i fumi tossici e la polvere”.
Il caso di Bargny e dei suoi attivisti conferma come la lotta contro l’emergenza climatica e l’inquinamento debba partire innanzitutto da una rivoluzione radicale di modelli di sviluppo ormai superati e insostenibili, che continuano ad essere applicati da Paesi emergenti in mancanza di aiuti e alternative praticabili.
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