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Dopo Tokyo prosegue il sogno di Bebe Vio di unire sport olimpico e paralimpico
Sfide, gioie, sogni. Bebe Vio racconta il successo ma anche le difficoltà di Tokyo 2020 e il progetto di portare insieme sport olimpico e paralimpico.
Bebe Vio, con la sua storia, il suo sorriso e la sua energia, è diventata un punto di riferimento per lo sport in Italia e nel mondo. La campionessa di scherma in carrozzina è tornata da un’estate indimenticabile in cui ha conquistato il secondo oro paralimpico nella gara individuale di fioretto ai Giochi di Tokyo 2020, dopo quello di Rio 2016, e l’argento nella prova a squadre insieme alle compagne Loredana Trigilia e Andreea Mogoș.
Un risultato sofferto e per niente scontato. L’ultimo anno di Bebe Vio, infatti, è stato caratterizzato da alti e bassi, tra cui un infortunio al gomito e un’infezione da stafilococco aureo che a inizio anno ha messo la schermitrice in pericolo di vita e di fronte al rischio di un’amputazione. “Ho preso tanta, tanta paura perché mi si stava ritogliendo il mio sogno,” riflette Vio poche settimane dopo il trionfo a Tokyo.
Ci ha parlato il giorno dopo l’incontro con Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, che ha invitato Vio a Strasburgo per parlare dei temi che la appassionano. “Lei è super pro disabilità e pro allo sport a livello di inclusione,” racconta Vio, che ha assistito al discorso sullo stato dell’Unione di von der Leyen, la quale ha concluso l’intervento parlando di “Bebe come esempio di ispirazione … questa è l’anima dell’Europa e del suo futuro”.
L’ennesima conferma che la stella di Bebe brilla sia dentro che fuori la pedana di scherma e di come la giovane campionessa sia diventata portavoce internazionale del potere trasformativo dello sport.
Il successo a Tokyo è arrivato dopo un anno molto duro. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
Una volta lì è stato veramente difficile. Ogni match sembrava che il mio corpo non riuscisse più a farcela, ogni match arrivava il medico e diceva, “guarda da qua ti devi fermare perché fa troppo male”. E io con l’adrenalina a palla dicevo, “no, ce la faccio, dai che è l’ultima” e mi dicevano che no, non era l’ultima perché era solo inizio mattina. E io: “è l’ultima, andiamo, andiamo, andiamo!” Quindi tosto ma bellissimo, la soddisfazione più grande in assoluto è stata riuscire a essere lì con la squadra. A Rio abbiamo preso il bronzo, adesso prendere un argento è stato qualcosa di magico. Tocca arrivare a Parigi (ai prossimi Giochi, nel 2024, ndr) perché vogliamo l’oro al cento per cento.
Come vedi il tema della salute mentale degli atleti?
Chi arriva all’Olimpiade o alla Paralimpiade ha iniziato a fare sport da veramente piccolo. Io ho iniziato a cinque anni ad avere la fissa dell’Olimpiade, poi è successo quello che è successo e a 11 anni ho iniziato ad avere la fissa della Paralimpiade. Per noi non esiste un anno, per noi la vita va ogni quattro anni. Ogni quattro anni so che devo fare quella cosa là, che poi non è tua e basta, è di tutti quelli che ci sono intorno. Il mio sogno è anche quello della mia famiglia, del mio allenatore – dei figli del mio allenatore, perché so che lui passa praticamente la sua vita con me, quindi so che lo devo fare anche per i suoi figli. È un dovere nei confronti di tutte le persone intorno. La pressione è tantissima, la tua fortuna dev’essere avere delle persone che ti sostengono.
Cosa significa essere una grande squadra nella scherma in carrozzina?
Se ci prendi individualmente non siamo una squadra forte. Io sono categoria B, le altre ragazze (entrambe categoria A, ndr) sono numero 13 e 15 del ranking mondiale, quindi rispetto alla Cina che ha il numero due della categoria B, perché è quella con cui vado sempre in finale, e poi ha una e due della categoria A… prendi quei soggetti là, prendi noi e sembriamo delle scappate di casa. Quello che ci fa avere il risultato è il fatto che noi siamo una famiglia. Il nostro modo di tirare è: non tiri per te ma per la ragazza che viene dopo di te. Per me Loredana e Andreea sono veramente una seconda madre e una seconda sorella.
Oltre alla squadra di scherma, sei anche membro del Toyota team. Cosa significa per te farne parte?
La vera figata del Toyota team è il fatto che siamo tutti completamente diversi: maschi, femmine, disabili, abili, tutti gli sport, ed è bellissimo perché ti rendi conto di fare parte di qualcosa di molto più grande. Andare a vedere la ginnastica artistica con Vanessa (Ferrari, argento nella prova a corpo libero alle Olimpiadi di Tokyo 2020, ndr) e innamorarmi e piangere con lei perché in qualche modo ti senti parte di quella stessa cosa, secondo me è qualcosa di bellissimo. Quello che rappresenta per me Toyota è proprio l’amore che hanno per quello che fanno, per le persone per le quali lo fanno.
Raccontaci di Art4sport, associazione nata nel 2009 e ispirata alla tua storia che mira a migliorare la vita di bambini e ragazzi portatori di protesi di arto. In che progetti siete impegnati al momento?
Stiamo riuscendo ad aiutare un sacco di ragazzi. Al momento siamo 38 dai tre anni ai 30 e adesso ne arriveranno altri quattro. Lo scopo non è arrivare a un’Olimpiade ma iniziare a divertirsi attraverso lo sport. Adesso stiamo lavorando su un progetto bellissimo, We embrace, e lo scopo è quello di abbracciare attraverso lo sport ogni tipo di inclusività, che sia a livello di disabilità, sociale e anche ambientale. Adesso arriverà We embrace sport, che sarà il 25 ottobre a Milano. Faremo due squadre, mix olimpici e paralimpici, e sarà una specie di staffetta di quattro sport (scherma, basket, calcio e pallavolo, ndr) dove gli atleti non sono amatoriali ma di altissimo livello, gente che è appena tornata da Tokyo. La figata dello sport è che negli anni ha cambiato la mentalità e la cultura della disabilità e dello sport in Italia. We embrace sport sarà esattamente quello, fare capire come lo sport a livello paralimpico è cresciuto talmente tanto da riuscire a essere rivale di quello olimpico.
Che futuro vedi dopo la scherma a livello competitivo?
A livello fisico faccio schifo e il mio “dopo” potrebbe essere anche domani, quindi ci sto pensando costantemente. Faccio l’università (la John Cabot University a Roma, ndr) e il mio scopo è quello di fare un Master. Mi ha presa la Columbia University di New York, quindi dovrei trasferirmi a New York. Il mio sogno è quello di diventare presidente del Cip, del Comitato italiano paralimpico, perché bisogna riuscire a fare un grandissimo lavoro, che Luca Pancalli (presidente del Cip, ndr) sta facendo in modo egregio e io sto studiando passo dopo passo tutto quello che fa.
Il mio obiettivo alla fine sarebbe quello di unire i comitati olimpici e paralimpici, quindi Coni (il Comitato olimpico nazionale italiano, ndr) e Cip. Il mio sogno entro cinque anni è riuscire ad andare in una qualsiasi palestra italiana e vedere che accanto a uno che corre in piedi c’è un amputato. In una palestra di scherma pretendo di vedere che c’è una pedana olimpica e accanto c’è quella paralimpica, non ghettizzare da una parta l’olimpica e dall’altra la paralimpica. Si può fare tutto insieme.
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