Behrouz Boochani. La nostra resistenza pacifica è più forte della vostra violenza di Stato
Behrouz Boochani quando si trovava a Manus Island, Papua Nuova Guinea
Behrouz Boochani è tornato in libertà nel corso di questa intervista. Lo scrittore curdo è stato tenuto prigioniero per sei anni in Papua Nuova Guinea dal governo autraliano.
Behrouz Boochani quando si trovava a Manus Island, Papua Nuova Guinea
La sua resistenza pacifica ha vinto. Dopo oltre sei anni di prigionia, traumi e torture, lo scrittore curdo Behrouz Boochaniè libero. La splendida notizia è arrivata mentre questa intervista era in corso di svolgimento. Fino al 12 novembre, infatti, l’autore era confinato in uno dei luoghi più remoti al mondo, la Papua Nuova Guinea, dove l’Australia ha imprigionato migliaia di richiedenti asilo per quasi vent’anni. Ora Boochani si trova in Nuova Zelanda e a breve, probabilmente, partirà per il Nordamerica. “Lo scorso settembre è stato liberato il centro di detenzione di Manus Island e siamo stati trasferiti in alcuni appartamenti della capitale di Papua, Port Moresby. Entro fine novembre altri di noi dovrebbero essere liberati, ma 46 persone restano in carcere in condizioni durissime. Siamo molto preoccupati”, aveva affermato pochi giorni prima della liberazione.
Questi sei anni di prigionia Behrouz Boochani li ha raccontati in un libro che è diventato un caso letterario internazionale. Nessun amico se non le montagne, uscito nel 2018 in inglese e pubblicato quest’anno in Italia da add editore, si è diffuso nel mondo come un grido inaspettato. Ha rivelato il dolore dei profughi lungo la rotta asiatica verso l’Australia. Ha scavato nelle storie di chi con lui si è nascosto nella foresta indonesiana e ha sfidato l’oceano sulle barche dei trafficanti, finendo in carceri finanziate dal governo di Canberra. Ha evocato la disperazione della sua gente, ovvero i perseguitati curdi in Iran. Ha ricordato come nel 2013 lui, giornalista e regista di 30 anni, sia stato costretto a scappare dal suo Paese, dopo che le Guardie della rivoluzione islamica (i pasdaran) avevano fatto irruzione nella sede di “Werya”, la rivista curda che aveva fondato. Quel giorno undici suoi colleghi furono arrestati.
“Se i governi non rispettano i migranti, mettono a rischio le democrazie”
Con la sua opera letteraria pluripremiata, inviata di nascosto al letterato di Sidney Omid Tofighian che l’ha tradotta dalla lingua farsi, Behrouz Boochani ha tolto ogni alibi agli indifferenti. Per quasi vent’anni la comunità internazionale si è mostrata inerte davanti a ciò che stava accadendo al largo delle coste australiane. Dal 2001 un modello migratorio, basato sul respingimento in mare e sulla detenzione in centri offshore, ha fatto deportare, incarcerare, affamare e torturare migliaia di innocenti. Bambini, donne e uomini scappavano da miseria, abusi e guerre. Provenivano da Afghanistan, Iraq, Iran, Siria, Sri Lanka, Myanmar Somalia, Sudan, Bangladesh, Pakistan, India, Nepal. I lager della vergogna – che ricordano quelli dove sono rinchiusi i migranti in Libia – sono stati creati su tre isole dell’oceano Pacifico: l’australiana Christmas Island, Manus nella Papua Nuova Guinea e Nauru, una piccola repubblica sulla linea dell’equatore. La maggior parte di essi è stata chiusa grazie alle proteste della società civile australiana. L’anno scorso tutti i bambini sono stati trasferiti con i loro famigliari sulla “terraferma”. Però, non è chiaro che cosa accadrà ai nuovi boat people in arrivo e alle 400 persone rimaste a Nauru e Port Moresby.
In 18 anni non sono stati sufficienti i servizi giornalistici che parlavano dei suicidi fra i detenuti, delle labbra cucite come atto di protesta e dei minori che per la “sindrome da rassegnazione” si spegnevano, smettendo di mangiare e bere. Serviva qualcosa in più. Come un Silvio Pellico degli anni Duemila, Boochani è riuscito a scatenare un domino virtuoso.
Quell’urlo di oltre 400 pagine, che supera i confini di genere e si legge col fiato corto, è una mano tesa a noi lettori. Anche gli abitanti dei Paesi più liberi e ricchi hanno bisogno d’aiuto. Come spiega a LifeGate l’intellettuale curdo, “le politiche disumane contro i migranti sono un esercizio di dittatura. I governi che non rispettano i diritti dei migranti, potrebbero scagliarsi contro tutti noi. Le nostre democrazie sono in pericolo”. Quest’intervista è stata raccolta nell’arco di diverse settimane per mezzo di Whatsapp, lo strumento con cui Boochani ha scritto il suo libro e ha comunicato con il docente di origine iraniana Omid Tofighian. Nelle risposte che seguono, l’autore si sofferma su quanto sta accadendo ai curdi in Siria e spiega perché ha scelto la resistenza pacifica. Sulla gestione del suo personale trauma, dice di non avere una risposta. Però, un obiettivo gli è chiaro: “Nelle mie nuove opere affronterò argomenti diversi. Non posso ridurmi a questa terribile esperienza”. Nessuno dovrebbe. Questa l’intervista completa.
Che cosa pensa della recente offensiva militare turca contro i curdi in Siria?
Ciò che sta accadendo nel nord della Siria non è soltanto un attacco contro i curdi, ma alla democrazia e ai suoi valori. I curdi hanno stabilito il sistema democratico più avanzato nella storia del Medio Oriente; un sistema che si basa sull’uguaglianza. Ora siamo difronte a un esercito fascista che assieme a gruppi terroristici colpisce i curdi che credono nella democrazia. Penso che la più grande minaccia globale sia il terrorismo di Stato e il fatto che i governi si accordino per supportarsi a vicenda nel violare i diritti umani. Oggigiorno li vediamo nascondersi dietro a concetti belli, quali pace, umanità e morale. Ecco perché quello turco (guidato dal presidente Erdogan, ndr.) ha nominato le sue operazioni di genocidio dei curdi ‘Primavera di pace’, una beffa. Ed è esattamente quello che sta facendo anche l’Australia: i suoi politici dicono che stanno salvando vite nell’oceano, ma in realtà stanno facendo torturare persone innocenti in prigioni remote, nascondendo loro stessi dietro una falsa morale.
Era solo un bambino quando la sua famiglia cercò di scappare dalla guerra fra Iran e Iraq (1980-’88). Che cosa ricorda di quel periodo?
Sono nato nel 1983 nella provincia di Ilam, che è una zona curda nell’ovest dell’Iran. La guerra arrivò anche lì, come racconto nel mio libro che però è simbolico. Non ho voluto scrivere un’autobiografia con dettagli veri sui miei famigliari e gli abitanti di Ilam, ma ho rappresentato molte storie tragiche accadute in quella regione. I curdi furono sfollati e persero tutto. Ho cercato di descrivere come la guerra distrugga ogni cosa e sia orribile.
Che cosa significa essere curdo per lei?
Essere curdo e vivere da curdo per me è la cosa più dura di questo mondo perché sei continuamente testimone della sofferenza della tua gente. Superpotenze e governi non democratici stanno cercando di privarci della nostra identità e dei nostri diritti. Come artista, ho il dovere di lottare per l’identità curda non solo perché appartengo a questa popolazione, ma in quanto essere umano che comprende profondamente tale ingiustizia o colonialismo. Per questo motivo potete ritrovare elementi culturali curdi in tutti i miei film e nel mio libro.
I rifugiati nei centri di detenzione hanno sofferto per abusi fisici e psicologici, tra cui la “sindrome da rassegnazione” che porta gli ammalati, tra i quali anche bambini, a spegnersi fino alla morte. Al momento i prigionieri ricevono qualche assistenza medica?
Finora 8 persone sono morte a Manus Island e 5 a Nauru. La maggior parte di loro per negligenza sanitaria e i restanti a causa delle violenze inflitte dalle guardie. Tutti questi decessi provano che questo sistema utilizza la malattia come un mezzo per torturare gli individui. Vorrei, inoltre, ricordare le tante persone danneggiate fisicamente e mentalmente. Abbiamo vissuto nell’assenza di cure e mezzi. Gli ammalati stanno ancora lottando contro questa mancanza. Fortunatamente, otto mesi fa il parlamento australiano ha approvato la “legge Medevac”, che ci sta aiutando molto. In base a essa, chiunque non riceva un trattamento medico in Papua Nuova Guinea e a Nauru deve essere trasferito in Australia. Finora 217 persone sono state portate sulla terraferma e altre dovrebbero partire entro il mese di novembre. Speriamo.
Lei come sta? Come sta elaborando il dolore provato in questi ultimi 6 anni di migrazione, naufragi e prigionia?
Il mio corpo è danneggiato. Io, come tutti gli altri rifugiati, sono stato testimone di cose terribili. Ho visto amici morire, altre persone ferirsi e tentare il suicidio. Molte sono state separate dai famigliari e dai loro bambini. Ho assistito a così tanta umiliazione e a così tanti traumi…Di certo tutte queste immagini sono dentro di me. Questa dura esperienza è diventata una parte di me. E’ difficile portarne il peso e al tempo stesso rimanere forte e positivo. Non sono sicuro di essere capace di elaborare tutto quanto. Ho combattuto per restare vivo e anche per far conoscere questo sistema. Ma non so se ho una vera risposta alla sua domanda.
Adesso in quali condizioni vivono i rifugiati?
Due mesi fa hanno chiuso il centro di detenzione di Manus Island e hanno trasferito ogni prigioniero – me compreso – a Port Moresby, capitale della Papua Nuova Guinea. Due anni fa a Manus c’erano 800 rifugiati, ora in questa pericolosa città circa 250. Non è sicura per chi viene da fuori. Almeno 46 individui sono stati incarcerati e si trovano in condizioni durissime. Sono preoccupato per loro perché il governo australiano non li ritiene dei rifugiati.
La destra e l’estrema destra italiana, il cui leader più popolare è Matteo Salvini, vuole emulare il modello migratorio australiano nel mare Mediterraneo. Vorrebbe dire qualcosa ai nostri politici?
Solo una cosa. Non guardate l’Australia come un modello. Non lasciate che il vostro governo la imiti. E non dico questo solo per i rifugiati, ma per la vostra gente e la vostra democrazia. Camberra ha compiuto tutti questi crimini per anni. Gli australiani glielo hanno permesso e adesso la loro società sta fronteggiando una sorta di dittatura. La democrazia australiana è a pezzi. Dopo aver sperimentato la dittatura a Manus, i governanti trattano gli australiani come i rifugiati. L’Australia al momento ha perso i suoi valori.
Crede ancora nella “resistenza pacifica”? Anche per i curdi?
Sì, sempre, anche per i curdi. Ciò, però, non significa che quando un governo fascista – come quello della Turchia – attacca la tua terra e la tua popolazione, tu non reagisci. Quella curda è sempre stata una resistenza pacifica per creare un sistema democratico in Medio Oriente. La nostra resistenza non violenta a Manus, per esempio, ha fatto vergognare l’Australia e ora ognuno condanna i suoi governi, chi li ha sostenuti, non noi. Abbiamo sfidato l’Australia in così tanti modi che alla fine l’abbiamo educata.
Quali sono le sue speranze e i suoi obiettivi per il futuro?
Dopo aver scritto per tanti anni in prigionia a Manus, sono arrivato a condividere le mie composizioni in un contesto internazionale. Di certo, però, d’ora in poi racconterò storie diverse e anche i miei prossimi lavori artistici tratteranno altri argomenti. Non riduco me stesso soltanto a questa esperienza.
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