Nel campo profughi di Burj al-Barajneh, le donne palestinesi preparano pasti e distribuiscono aiuti alle persone in difficoltà nella città di Beirut.
Le fiamme si sono spente a Beirut, ma brillano gli occhi dei suoi abitanti
A distanza di quattro mesi dalle esplosioni al porto di Beirut, la situazione resta critica in Libano. Ce lo racconta Maria Gaudenzi di Avsi.
Quando il sole è sorto su Beirut, la mattina del 5 agosto, la città non era più la stessa. Non c’erano più le grida concitate degli abitanti, già operativi dalle prime luci dell’alba: c’era silenzio. C’erano macerie, corpi. E lacrime.
Due boati, due forti deflagrazioni avevano scosso la capitale del Libano il giorno precedente distruggendone il cuore, il porto. “Una combinazione letale di negligenza, irresponsabilità, incompetenza, interessi economici più o meno espliciti e 2.750 tonnellate di ammonio di nitrato trascurate per sei anni: sembra questa la causa più plausibile di un’esplosione che, con una forza pari a un sisma di magnitudo 3,3, ha provocato più di 190 morti e 6.500 feriti”, si legge sul sito di Avsi, una delle organizzazioni che a partire da quel fatidico 4 agosto – esattamente quattro mesi fa – non hanno mai abbandonato la popolazione.
Un popolo fatto di persone fragili, di tanti anziani, di donne coraggiose. Volti, storie, vite irripetibili. Esseri umani che, nonostante la crisi che il loro paese sta attraversando, ti guardano ancora con la luce negli occhi e, nonostante l’orgoglio, hanno trovato il coraggio di chiedere aiuto. Noi non abbiamo potuto ammirare di persona questa luce, ma ora vi diamo l’opportunità di farlo attraverso lo sguardo di Maria Gaudenzi, responsabile Avsi degli interventi in risposta al disastro.
Com’è adesso la situazione a Beirut, a distanza di quattro mesi dall’esplosione al porto, e nel bel mezzo di una pandemia?
Faccio una premessa. Io in realtà sono arrivata a Beirut il primo di settembre, quindi qualche tempo dopo l’esplosione, e sto seguendo i programmi che Avsi ha attivato in risposta al Beirut blast. La situazione è molto critica in Libano al momento, perché l’esplosione rappresenta soltanto l’ultimo tassello di una crisi che ha visto le circostanze deteriorarsi nel paese già da ottobre dello scorso anno, quando è iniziata quella che hanno chiamato rivoluzione, da cui poi si è scatenata una gravissima crisi economica e finanziaria che di fatto ha ripercussioni tangibili sullo stato della popolazione perché c’è un impoverimento proprio visibile, dovuto appunto alla svalutazione della moneta, al fatto che non si riesce più ad effettuare un certo tipo di transazioni e non si riesce ad accedere ai propri conti correnti.
Nei mesi di febbraio e marzo è arrivata anche qui la Covid-19, che inizialmente era abbastanza contenuta; diciamo che si è scatenata fra luglio e agosto, soprattutto in seguito all’esplosione. Per cui di fatto adesso il Libano si trova nella fase quattro della classificazione Who della pandemia, con un alto tasso di trasmissione comunitaria, e il sistema sanitario nazionale è inadeguato a gestire quest’emergenza, quindi sono state imposte a più riprese delle restrizioni alla mobilità. Siamo ancora in lockdown, che fino alla settimana scorsa era totale; adesso è parziale nel senso che hanno un pochino riaperto, però comunque si registrano cifre importanti sui contagi perché sono circa duemila al giorno, ma qua c’è una popolazione di 4,5 milioni.
In tutto questo appunto scoppia il 4 agosto il porto, cosa che chiaramente ha avuto un effetto dirompente sulla città perché ha distrutto quasi tutto, ha raso al suolo tutte le infrastrutture portuali e ha avuto ripercussioni fino a 5-10 chilometri sugli edifici, oltre che un forte impatto a livello psicologico sulle persone. Come dicevamo, la popolazione era già molto fragile a causa della situazione preesistente e questo ha proprio dato il colpo di grazia anche sulla speranza di un futuro migliore, sulla capacità delle istituzioni locali di rispondere alla crisi; di fatto ancora c’è un governo provvisorio da marzo.
Dal punto di vista delle infrastrutture si è attivata subito la macchina dell’aiuto umanitario e la prima esigenza è stata quella di rendere nuovamente abitabili gli appartamenti e le case, perché si stima che ci fossero 300mila persone sfollate. Noi di Avsi, così come altre organizzazioni, ci siamo mobilitati per rispondere a questa primissima emergenza, questo bisogno immediato che era quello di rendere nuovamente abitabili le abitazioni, gli appartamenti, ma anche i negozi, perché le piccole botteghe sono la principale fonte di reddito per molte famiglie.
A data odierna Avsi ha raggiunto 260 famiglie, incontrandole a casa e conducendo un’analisi dei bisogni; quasi 170 di queste sono state trovate in stato di necessità e ritenute eleggibili di assistenza. 130 appartamenti sono già stati riabilitati, ma ci sono ancora cantieri in corso; noi cercheremo nel giro di 15 giorni di chiudere questo programma avendo riabilitato 170 appartamenti prima dell’inverno, che qui arriva un po’ più tardi per fortuna e quindi adesso ci sono ancora 20 gradi, scendono a 15 durante la notte però il freddo più severo arriva a gennaio.
C’è qualche storia in particolare di queste famiglie che ti ha colpito più di altre?
Quello che non mi aspettavo è che ci siamo trovati di fronte a una popolazione prevalentemente anziana, perché l’esplosione ha colpito questi quartieri storici di Beirut in cui la popolazione residente è costituita principalmente da anziani, molti dei quali soli – una realtà molto simile alla nostra. Questi vecchietti vivono da soli e soffrono di solitudine, ed è come se questa esplosione li avesse costretti a uscire di casa e chiedere aiuto. Questo mi ha colpito perché nelle case incontravamo principalmente loro, che ci ricordavano i nostri nonni, molto vulnerabili e molto indifesi, per cui ho proprio in testa le immagini di questi signori spaventati, a cui di fatto serviva che mettessimo a posto la finestra o la porta, ma più che altro serviva un volto amico, una compagnia, qualcuno con cui parlare per sentirsi rassicurati e meno soli di fronte a un bisogno.
Avsi sta portando avanti anche un progetto per lo smaltimento delle macerie, corretto? In che cosa consiste?
Noi non siamo i principali responsabili di questo progetto: abbiamo incontrato un’organizzazione locale che si chiama Lebanon reforestation initiative che si è fatta carico, con fondi delle Nazioni Unite, di questa attività. L’esplosione ha prodotto una quantità enorme di macerie: a data odierna ne sono state raccolte circa 120mila tonnellate, ma si stima che ce ne siano altre 200mila da smaltire. Questa organizzazione locale ha avuto la visione di poter sfruttare questi rifiuti – che però vanno smistati prima – per andare a riempire una cava in una delle montagne qui dietro Beirut.
Quello che abbiamo fatto noi è stato contribuire con forza lavoro, pagando dei lavoratori occasionali che andassero manualmente – non abbiamo dei macchinari – a smistare le materie, dividendo il vetro dal cemento, il gel dal cartongesso. Al momento ci siamo fermati perché ci stavamo appoggiando ad un progetto che si è concluso, ma speriamo di poter accedere ad altri canali di finanziamento così da riprendere.
Di Beirut ovviamente si è parlato moltissimo ad agosto mentre ora, nonostante la situazione resti critica, sono poche le notizie che circolano. Questo come ti fa sentire?
La cosa non mi sorprende, però quel che ho visto di positivo è che comunque il governo italiano si è molto mobilitato per il Libano. Ho conosciuto di persona i militari che sono sbarcati due giorni dopo l’esplosione, un contingente di 500 italiani. Hanno aiutato molto nell’attività di rimozione delle macerie, inoltre hanno montato un ospedale da campo. Il governo italiano ha stanziato anche fondi bilaterali per la primissima emergenza e adesso ne ha stanziati ulteriori per i progetti da parte delle ong, quindi c’è un impegno istituzionale nei confronti del Libano.
Cosa può fare ognuno di noi per sostenere le campagne di Avsi?
La campagna di Avsi #LoveBeirut è ancora aperta, non si è mai chiusa. Il nostro intervento generale, come dicevo prima, in realtà non si compone solo della parte di ristrutturazione degli edifici: abbiamo anche cercato di accompagnare le persone in un percorso di supporto psicosociale, perché comunque il trauma era molto forte, e abbiamo avuto la possibilità di aiutare le famiglie più in difficoltà con dei pacchi alimentari.
Ora i cantieri, come ho detto, sono in corso e prevediamo di chiuderli nel mese di dicembre, però l’impegno è totalmente aperto, per cui se ci fossero disponibilità di più fondi continueremo sicuramente a garantire supporto alla popolazione. Ci stiamo dirigendo verso un approccio di lungo periodo, guardando alle realtà che sono radicate sul territorio e fanno parte del tessuto sociale, quindi hanno maggiori capacità di raggiungere i gruppi più vulnerabili.
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