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Quando il giornalista diventa un bersaglio. Il caso di Carlos Rodriguez
Sono 881 i giornalisti uccisi nel mondo negli ultimi 10 anni e solo per pochissimi di loro sappiamo chi è stato. In alcuni paesi sono dei veri bersagli. Uno di questi è El Salvador.
“Non c’è democrazia senza la libertà di stampa”. È quanto ha scritto su Twitter il presidente del Parlamento europeo David Sassoli il 2 novembre in occasione della Giornata mondiale per mettere fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti, aggiungendo che in una giornata come quella, “bisogna rendere omaggio a Daphne Caruana Galizia, Ján Kuciak e a tutti quelli in tutto il mondo che hanno perso la vita per aver svolto il loro lavoro di reporter”.
There’s no democracy without freedom of the press. On Intl Day to #EndImpunity for Crimes against Journalists, we pay tribute to Daphne Caruana Galizia, Jan Kuciak and all those around the world who lost their lives and suffered attacks for doing their job. #KeepTruthAlive pic.twitter.com/RFUIpsEGC0
— David Sassoli (@EP_President) November 2, 2019
Daphne era una giornalista e blogger maltese, impegnata in numerose inchieste e attiva contro la corruzione, che è stata assassinata in un attentato dinamitardo nel 2017, mentre Ján era un giornalista slovacco che stava indagando sulla gestione di fondi strutturali dell’Unione europea nel suo Paese ed è stato trovato ucciso in casa nel 2018.
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Sono 881 i giornalisti uccisi negli ultimi 10 anni
Negli ultimi 10 anni, almeno 881 giornalisti sono stati uccisi nel mondo per aver raccontato la verità. In nove casi su dieci, gli omicidi restano impuniti. Infatti quasi il 90 per cento dei responsabili delle uccisioni dei 1.109 giornalisti assassinati tra il 2006 e il 2018 non è stato condannato.
Sono questi alcuni dei dati divulgati dall’Unesco per la campagna #KeepTruthAlive, mantieni in vita la verità. “Se non riusciamo a proteggere i giornalisti presi di mira, sarà estremamente difficile rimanere informati e contribuire al processo decisionale. Se i giornalisti non riescono a fare il loro lavoro in sicurezza, il mondo di domani sarà segnato da confusione e disinformazione”, ha dichiarato il segretario generale dell’Onu, António Guterres.
Senza libertà d’espressione e mezzi di informazione liberi è infatti impossibile tenere in vita la democrazia.
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Matite spuntate
Se i casi dei reporter stranieri uccisi, soprattutto in zone di guerra, sono quelli che fanno più clamore, in realtà a morire, emerge nel dossier Unesco, sono nel 95 per cento dei casi giornalisti locali.
In El Salvador sono le bande di delinquenti e i Narcos a spuntare le matite dei giornalisti e a silenziare le loro voci. Con minacce ma soprattutto con omicidi. Sono 3.341 gli omicidi a fine 2018 in El Salvador, una media di 9 persone uccise al giorno, che pongono il Paese tra i più violenti al mondo.
Il narcotraffico continua ad essere la principale attività della criminalità salvadoregna, scarsamente contrastata dalle forze di sicurezza. In molti casi sono rimasti coinvolti in gravissimi fatti di violenza anche uomini delle istituzioni e giornalisti. I continui attacchi alla libertà di espressione hanno tolto la parola a centinaia di cronisti locali, costringendo molti di loro a firmare in anonimo, rinunciato ai loro nomi per continuare a fare informazione. Alcuni mezzi di informazione, invece, hanno smesso di raccontare cosa accade.
Il messaggio di violenza contro un giornalista diventa un messaggio di silenzio per tutti gli altri che spesso decidono di auto-censurarsi. Si configura così un doppio omicidio: da un lato si uccide il giornalista e dall’altro si uccide la sua verità.
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Il taccuino al servizio della verità: la storia del giornalista Carlos Rodriguez
El Salvador è un Paese di paradossi che soltanto alcuni giornalisti provano a raccontare. Si può comprare cocaina e crack scendendo in strada ma il consumo di droghe leggere è un reato. Gli stupri sono un’emergenza nazionale ma si rischiano trent’anni di carcere anche per un aborto spontaneo. L’obitorio non riesce a smaltire i cadaveri ma le armi sono in vendita libera nei negozi.
Lì la vita sembra non valere molto, ma è soprattutto nel periodo più drammatico della storia di questo Paese, quello della guerra civile che dal 1980 al 1992, che Carlos Rodriguez diventa giornalista. E come tale si trova a dover descrivere, oltre a tutto ciò, l’orrore delle persecuzioni, persino dopo le prime elezioni libere.
Persecuzioni e minacce che lo hanno coinvolto anche in prima persona: “Ho subito tre attentati, per quello che raccontavo, per quello che vedevo. Nell’ultimo attacco mi hanno sparato e sono rimasto gravemente ferito. Mia madre allora mi ha detto meglio un figlio lontano che un figlio morto”. Così nel 1997, Carlos decide di lasciare il suo paese, e chiede asilo politico in Italia, a Roma; asilo che gli viene concesso.
Il rientro a El Salvador
Nel 2002 un terremoto scuote drammaticamente El Salvador e tutto il Centro America, “un terremoto che ha distrutto l’intero quartiere dove viveva mia madre. Così dopo cinque anni di esilio sono tornato per ricostruire. La sua casa e il mio paese”.
Carlos però capisce che dopo la guerra e dopo il terremoto il paese si dedica solo a ricostruire le infrastrutture, «Non stavamo ricostruendo la vita, la convivenza. Molte famiglie erano distrutte, frammentate e da questa situazione emergevano gruppi criminali”. Bande, che fagocitano il dolore e la povertà e rigettano violenza e sangue.
“Mi sono messo a indagare su questi gruppi, a raccontare le dinamiche dei clan, a fare lavori di prevenzione della violenza e progetti nei quartieri per il tempo libero dei ragazzi: biblioteche, sport, arte, cultura. Intendevo lottare con ogni mezzo contro il crimine organizzato, contro la violenza che ogni giorno ci portava via il meglio che avevamo nella nostra società, i giovani”.
Per la seconda volta Carlos Rodriguez diventa una persona scomoda
Come un film già visto, Carlos torna a ricevere minacce e attentati per il fatto di voler rendere consapevole, attraverso azioni concrete e l’informazione, la propria comunità. “Per sei mesi non ho lavorato e quasi non potevo uscire di casa. È allora che mia moglie e i miei quattro figli hanno detto: non vogliamo un padre morto”.
Carlos guarda fuori dalla finestra della stanza dove parliamo. Penso stia richiamando alla mente quei giorni ma non è così: «Ricordo ogni istante di quella notte, parlo con i miei bambini. Un anno e mezzo, sette, dieci, tredici anni. Papà deve andare. Era la prima volta che ci separavamo».
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Per la seconda volta Carlos lascia El Salvador
Carlos piange mentre l’aereo prende quota. “Lasciare il paese in cui si nasce è una scelta difficile, che spezza il cuore e lasciare la famiglia lo è ancor di più”.
È di nuovo un esiliato a causa del suo scrivere, del suo raccontare, del suo agire per il suo paese e decide di tornare in Italia, “l’unico posto dove sentivo di avere un’opportunità per proteggere me e la mia famiglia”, che da poco lo ha raggiunto.
Carols Rodriguez è un testimone, un esule della drammatica situazione di chi vuole fare informazione in El Salvador, di chi si occupa di riportare i fatti, le notizie. Di rendere consapevole la propria comunità. Perché un popolo senza informazione è un popolo senza storia e senza memoria.
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