La Cop16 sulla biodiversità si conclude con pochi passi avanti. Cosa resta, al di là della speranza?
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Negli Stati Uniti cresce l’attenzione verso la tutela delle aree naturali e della biodiversità locale, ma c’è ancora molto lavoro da fare.
Gli Stati Uniti ospitano più di 1.300 specie animali e vegetali a rischio di estinzione, e circa il 40 per cento delle terre e delle aree marine rappresentano zone protette: oggi, il grande tema della biodiversità ritorna al centro del dibattito, anche grazie a diversi segnali positivi riscontrati nel corso degli ultimi anni e ai piani del presidente Biden per incentivare le operazioni di conservazione ambientale.
Con un ordine esecutivo firmato il 27 gennaio, appena una settimana dopo l’avvio del suo mandato, Joe Biden ha dato avvio al programma 30 by 30, un impegno concreto che mira a proteggere il 30 per cento delle aree marine e dell’entroterra statunitense entro il 2030.
Al momento circa il 26 per cento delle coste americane è considerato territorio protetto, mentre il dato scende al 12 per cento per quanto riguarda l’entroterra. Per tener fede all’impegno preso, quindi, nel corso dei prossimi dieci anni sarà necessario dedicarsi a proteggere un’area di quasi due milioni di chilometri quadrati.
I benefici sarebbero enormi sia per quanto riguarda il rallentamento dei cambiamenti climatici sia per la salvaguardia della biodiversità, un tema tanto attuale quanto vasto e delicato. Uno studio delle Nazioni Unite, infatti, stima che un milione di specie animali e vegetali siano attualmente a rischio di estinzione a livello internazionale, una crisi dovuta alle forti modifiche imposte dall’uomo agli ambienti naturali, ai ritmi eccessivi adottati nei processi di caccia e agricoltura, all’inquinamento e al riscaldamento globale.
Nelle ultime settimane alcune buone notizie hanno contribuito a riportare il tema della biodiversità al centro della discussione nazionale. Negli ultimi dieci anni il numero di aquile di mare, chiamate anche aquile calve – l’animale simbolo del paese – è quadruplicato negli Stati Uniti, passando da circa 72mila esemplari nel 2009 a più di 300mila. Il risultato è particolarmente notevole se consideriamo che la specie era a rischio di estinzione fino al secolo scorso: nel 1963 se ne contavano appena 417 individui.
Gran parte dei danni era riconducibile all’uso massivo di ddt, pesticida utilizzati nel secondo dopoguerra che contaminava le acque e avvelenava le aquile, portandole a deporre uova con gusci molto deboli. L’uso di ddt è stato vietato negli Usa a partire dal 1972, e le aquile calve sono state rimosse dall’elenco delle specie a rischio nel 2007.
In California, invece, una compagnia attiva nel settore dell’energia eolica si sta dando da fare per proteggere i condor locali, una specie oggi considerata in pericolo di estinzione. Si tratta di Avangrid renewables, che gestisce attualmente 126 pale eoliche nelle montagne del Tehachapi, a nord di Los Angeles. Le pale, che hanno un diametro di quasi 80 metri, rappresentano un pericolo per i condor, che potrebbero inavvertitamente colpirle mentre sono in volo.
Anche se al momento non si hanno notizie di condor uccisi dalle pale eoliche nello stabilimento di Avangrid renewables, per compensare eventuali danni futuri la compagnia ha preso accordi per finanziare l’allevamento in cattività di sei condor, un’operazione che costerà 527mila dollari in tre anni. Alcuni ambientalisti, però, sono scettici e affermano che invece di compensare i decessi bisognerebbe studiare soluzioni in grado di prevenirli, affrontando parallelamente i problemi collaterali causati dagli impianti, come la perdita di habitat naturale per le specie locali.
Il quotidiano britannico Guardian ha riportato che al momento circa cento esemplari risiedono nella zona delle turbine, tutti facenti parte di un programma di allevamento avviato alla fine degli anni Ottanta dal dipartimento americano per la Conservazione della fauna e della pesca (Fws).
Durante la presidenza di Donald Trump soltanto 25 specie sono state poste sotto protezione, mentre dieci sono rimaste in un “purgatorio normativo”: sono state riconosciute come a rischio, ma a causa della mancanza di fondi non sono entrate nell’elenco ufficiale di specie protette. Tra queste troviamo la farfalla monarca, il gufo maculato americano e la testuggine gopher. In un comunicato stampa Noah Greenwald, direttore per le specie protette del Centro americano per la diversità biologica, ha affermato: “Gli scorsi quattro anni sono stati un periodo buio per la flora e la fauna selvatica”.
Il 4 febbraio, Biden ha posticipato l’attivazione di una nuova regolamentazione, approvata dal suo predecessore, che avrebbe drasticamente ridotto i poteri del governo nelle operazioni di protezione per più di mille specie di volatili selvatici nordamericani.
Nonostante i passi avanti siano concreti e promettenti, il lavoro da fare è ancora parecchio per proteggere la biodiversità in un territorio tanto vasto e variegato come quello degli Stati Uniti. In Florida, ad esempio, nel corso delle ultime settimane decine di tartarughe marine sono ritornate sulla costa in condizioni preoccupanti e incapaci di muoversi in acqua, presentando letargia e bassi livelli di glucosio. Gli esperti dei centri di aiuto per animali dello stato stanno studiando le cause di questa situazione e i possibili rimedi.
Sempre in Florida, nei primi tre mesi del 2021 sono morti 539 lamantini: un numero preoccupante, soprattutto se comparato con i 637 decessi totali registrati in tutto il 2020. La maggior parte degli esemplari si trovava nell’area della Indian river lagoon, tra Orlando e Miami, una zona che ospita più di 4mila specie animali e vegetali ed è quindi particolarmente importante dal punto di vista della biodiversità.
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