La Cop16 sulla biodiversità si conclude con pochi passi avanti. Cosa resta, al di là della speranza?
Si è conclusa il 2 novembre la Cop16 sulla biodiversità, in Colombia. Nonostante le speranze, non arrivano grandi risultati. Ancora una volta.
A un anno dalla partenza, che cosa ho scoperto del rapporto tra uomo e natura attraversando le Americhe. Un viaggio per celebrare la biodiversità.
Ho sempre pensato che per essere una buona giornalista, e una scienziata capace, fosse fondamentale pormi degli interrogativi. Dalle più semplici alle più scomode. Come un carburante sostenibile, le domande mi hanno spinta ad andare oltre la superficie, a superare confini mentali imposti laddove io non ne vedevo, a ribellarmi al precostituito quando per me c’era solo qualcosa da reinventare e a salvaguardare quando, intorno a me, vedevo solo la volontà di distruggere. Se dovessi spiegare, per sommi capi, com’è nato il progetto Wane – We are nature expedition, probabilmente risponderei “cercando una risposta all’unica domanda che tutti, nessuno escluso, dovremmo porci ogni mattina appena apriamo gli occhi: come possiamo arrenderci alla distruzione della natura?”.
Una spedizione finalizzata a documentare i cinque principali fattori di perdita della biodiversità riconosciuti dall’International panel for biodiversity and ecosystem services (Ipbes) – cambiamenti climatici, sovrasfruttamento, inquinamento, perdita di habitat e diffusione di specie aliene – e a raccogliere le storie di chi sta combattendo per fare in modo che quella che è una vera e propria ondata di distruzione possa essere fermata.
Quasi ottantamila chilometri lungo la Panamericana, dall’Alaska all’Argentina, e attraverso quasi tutti gli ecosistemi esistenti al mondo – dalla foresta temperata a quella pluviale, dal deserto andino alla tundra artica, con l’oceano Atlantico e quello Pacifico come inquieti compagni di viaggio. Ora, a quasi un anno dalla partenza, dopo aver percorso poco più della metà dei chilometri previsti, e lasciatomi alle spalle il Nord e il Centro America, è tempo dei primi bilanci e delle prime risposte.
Chenega, Iktua, Mike ed Egagutak. Sono i nomi delle quattro orche che fanno parte del branco AT1 che abbiamo avvistato all’inizio della spedizione, al largo di Seward, una piccola località marittima della Resurrection Bay, lungo uno dei fiordi della Penisola di Kenai, in Alaska. Chenega, la più anziana, è nata nel 1965. Mike ha la stessa età di Davide, mio compagno di lavoro e di vita, fotografo della spedizione, nato nel 1980.
La sua pinna dorsale dopo l’incidente della Exxon Valdez, la petroliera che nel 1989 si è incagliata riversando in mare quasi 160 milioni di litri di petrolio greggio e inquinando più di duemila chilometri di costa, non è mai cresciuta. Nessuna delle femmine è stata invece in grado di riprodursi. Gli effetti dello sversamento sul loro sistema riproduttivo sono stati devastanti e, così, il branco è destinato a scomparire nei prossimi anni, insieme al loro dialetto. Ogni branco di orche, infatti, ha un suo linguaggio e quando scompare porta con sé anche un ricco patrimonio di cultura e tradizioni uniche al mondo. Proprio come succede con le comunità indigene e le conoscenze che ci tramandano sulle specie con cui convivono, sulla loro importanza per gli ecosistemi e per la loro, la nostra, sopravvivenza.
In Guatemala, ad esempio, la natura è così strettamente legata alle tradizioni culturali delle popolazioni indigene che le donne maya, custodi della memoria storica e depositarie delle conoscenze legate al mondo naturale, cuciono negli abiti tradizionali elementi tipici delle regioni di appartenenza: così, nei huipil – top coloratissimi che indossano sopra delle gonne lunghe fino alla caviglia o al ginocchio – compaiono triangoli che rappresentano vulcani, fiori che abbondano nei loro villaggi o animali sacri ai loro antenati. Tra questi, il quetzal splendente, un uccello della famiglia dei Trogonidae la cui coda può raggiungere fino ad un metro di lunghezza e il cui prezioso piumaggio veniva utilizzato per adornare i copricapi delle personalità Maya più importanti della società, come nobili e sacerdoti. Diffuso nelle foreste nebulose del Centro America, tra i mille e i tremila metri di quota, per riprodursi il quetzal ha bisogno di alberi molto vecchi in cui fare un buco in cui deporre le uova e crescere i propri piccoli. Alberi antichi di cui, a causa della deforestazione sfrenata, spesso incentivata dagli stessi governi interessati a fare spazio a monocoltura e pascoli – come accaduto in Costa Rica negli anni Ottanta – sono rimasti pochi esemplari.
Un problema, quello della deforestazione, che acuisce una situazione già di per sé drammatica. La regione del Centro America è, infatti, tra le più esposte al rischio di disastri ambientali e all’impatto del riscaldamento globale. Qui si trova il cosiddetto corridoio arido, “un’area caratterizzata da condizioni di siccità estrema, continuativa e reiterata, seguita da periodi di pioggia intensa, che causano carestie e mancati raccolti” e che si estende per 1.600 chilometri dal Chiapas (Messico) a Panama, attraverso Guatemala, Honduras, Nicaragua e Costa Rica. In una regione considerata tra le più insicure al mondo, dove i livelli di violenza e instabilità sono estremamente alti, i cambiamenti climatici causati dall’uomo non fanno che alimentare una polveriera fatta di insicurezza alimentare, povertà e ineguaglianze che, nei prossimi anni potrebbero portare a nuovi ed estesi conflitti. Come quello che, tra il 1960 e il 1996 ha letteralmente massacrato duecentomila indigeni del Guatemala, che hanno rappresentato circa l’83 per cento delle vittime di una guerra civile che, a guardare i bambini che si rincorrono attorno ad un immenso albero di avocado e me ne offrono ridendo i frutti, sembra terribilmente lontano ma il cui spettro accompagna ogni giorno della loro e, adesso, anche della nostra vita.
La prima volta che ho toccato con mano gli effetti dei cambiamenti climatici nel continente americano, stavo per lasciare l’Alaska, una regione che mi ha dato più di quello che sognavo da bambina, quando mi immaginavo intenta a scrivere il primo romanzo in una capanna simile a quella in cui ha vissuto Jack London, alle porte di Dawson City. Ero seduta in una panchina, in compagnia di Thabo, il mio amico a quattro zampe, sotto una pioggia battente e un freddo che, davanti agli effetti dell’aumento della temperatura media globale, suonava quasi come un ossimoro. Eppure, lungo tutto il sentiero che porta al bacino collettore, una serie di cartelli indicano il punto fino a cui si estendeva il ghiacciaio Exit, in un determinato anno. Una via crucis dolorosa, quella dei ghiacciai, che in molti percorrono ogni giorno con il pensiero. Come James, il guardiaparco in pensione che abbiamo incontrato ad Hayder, la “città fantasma più amichevole di tutta l’Alaska”. I suoi occhi fissi sul Glacier, destinato a scomparire entro il 2100, raccontano più di ogni report scientifico che cosa significa perdere i luoghi in cui si è cresciuti e di cui si vorrebbe raccontare a quel nipotino che, mentre ci salutiamo, gli corre incontro.
Eppure, proprio la speranza continua ad essere il sentimento che accomuna tutti coloro che abbiamo incontrato e che dedicano la loro vita a preservare l’unico luogo al mondo in cui siamo davvero al sicuro: la natura. Chi per lavoro e chi per passione, sono custodi di specie ed ecosistemi, e hanno capito quanto la nostra esistenza dipenda dai beni e dai servizi che il mondo naturale ci regala ogni giorno. Si svegliano all’alba, ogni mattina, e dopo un caffè al volo indossano gli stivali e si inoltrano nella foresta pluviale per controllare che la femmina di Tapiro di Baird a cui hanno messo il radiocollare stia bene e si prenda cura di Julian, il suo cucciolo. Minacciato dal bracconaggio e dalla deforestazione, quello che è a tutti gli effetti un fossile vivente, deve ora fare i conti anche con la narcoganaderia, l’allevamento illegale di bestiame che nasconde traffici ancora più illeciti: quelli legati al narcotraffico.
Qui, nella Tapir Valley, il mammifero più grande del Mesoamerica condivide l’habitat con un altro organismo, molto più piccolo e scoperto di recente: Tlalocohlya celeste, una rana arboricola scoperta solo un anno fa da una guida naturalistica locale, Donald Varela Soto, e descritta dallo staff della Costa Rica wildlife foundation (Crw). Quando siamo andati a cercarla, insieme a Valeria Aspinall – biologa e coordinatrice del gruppo di conservazione degli anfibi della Crw – aveva smesso di piovere da poco, stava sopraggiungendo la sera e la vita notturna della foresta stava prendendo il sopravvento. Tra l’erba alta, grossi ragni lupo attendevano in agguato la loro preda e più di una volta ho sperato che non mi scambiassero per un giunco in movimento. Dopo un paio d’ore, il piccolo anfibio verde ha fatto la sua comparsa ed è stato come se, in un solo istante, la magia di quella che chiamiamo biodiversità si fosse palesata in tutta la sua forza misteriosa. 8.9 milioni di specie catalogate ma centinaia di milioni, forse addirittura di miliardi, ancora da scoprire. E noi, ancora impegnati a cercare la magia in altri Pianeti, o ad investire miliardi in una ricerca antica ed ossessiva verso dimensioni alternative.
Osservando la vita scorrere dal finestrino, attraverso Paesi che per molto tempo ho osservato su una mappa, studiandone le strade e pianificando l’itinerario, mi sono più volte chiesta quanto cieca debba essere l’umanità per pensare che il genio tecnologico possa ancora salvarci. Gli strumenti che creiamo, le tecniche a cui diamo vita, sono state senz’altro fondamentali per garantire, quantomeno ad una parte di mondo, una qualità della vita definita da molti come “superiore”. Ma la domanda che non smetto di pormi è: superiore rispetto a quale modello e per rispondere a quale bisogno? Il Metaverso, ad esempio, è considerato un passo decisivo verso un futuro illuminante e illuminato ma io non riesco a non trovare aberrante, e persino pericoloso, il fatto che persone reali, che camminano su un suolo costruito da milioni di piccoli organismi, acquistino terreni e beni virtuali in una realtà alternativa a quella a cui hanno avuto la fortuna di appartenere. Perché la vita, in fondo, è questo: una fortuna che dura un lampo, in un Pianeta straordinario che ci sopravviverà. E noi uomini, inguaribili codardi privi di ogni capacità di assumerci le nostre responsabilità, stiamo assemblando un mondo virtuale in cui scappare perché siamo incapaci di prenderci cura della nostra casa comune.
Quando il progetto era nelle sue fasi iniziali, ero convinta che le colonne portanti del racconto che avrei portato a casa, sarebbero state la speranza e la forza del genere umano. Eppure, per quanto rimanga convinta che alcune delle storie che ho ascoltato e di cui sono stata testimone, sono destinate a cambiare il mondo e a salvare pezzi di natura che, altrimenti, sarebbero già scomparsi, mentirei a me stessa e agli altri se dicessi che siamo sulla strada giusta. Perché rimanere positivi è difficile. Lo è quando leggi i dati, quando studi i report e quando intervisti esperti ed esperte in ambiti specifici. Lo è quando fuori dal finestrino osservi più rifiuti che alberi, quando di notte sei testimone del saccheggio di decine di nidi di tartaruga olivacea, in pericolo di estinzione, e non puoi fare nulla per impedirlo. Perché ne vale la tua sicurezza personale e perché sei consapevole che quegli episodi vanno letti anche con una lente diversa, quella di chi sa che le sentinelle che osservavano ansiose il mare in attesa della loro preda sono esseri umani stremati dalla povertà o dall’ignoranza.
E talvolta, da tutte e due le cose. È difficile rispondere alle domande di chi ti chiede se ce la possiamo ancora fare quando, sveglia da pochi minuti, senti il verso straziante di quello che di lì a poco scoprì essere un parrocchetto mentoarancio – in pericolo di estinzione in alcune regioni del Sud America – e vedi un uomo con un coltello in mano, pronto a recidergli le ali per detenerlo come animale domestico. Un’usanza che, a ben vedere, è ancora molto in voga anche in occidente dove giardini e terrazzi sono ancora spesso e volentieri “impreziositi” da animali esotici la cui presenza, così innaturale, è una delle più gravi minacce alla biodiversità. Eppure, ad oggi, sono circa cinque milioni gli animali esotici che sopravvivono nelle case degli italiani e, per strada o nei salotti, è sempre più frequente vedere surikati al guinzaglio, esemplari di drago barbuto o petauro dello zucchero.
Ma lo è anche quando, camminando per i vicoli di coloratissimi paesini coloniali, o attraversando strade congestionate da un traffico chiassoso e quasi immobile, vedi centinaia di cani morenti, così magri da non reggersi in piedi. Alcuni di loro si appiattiscono al suolo così tanto che è facile pensare che vogliano solo scomparire. Altri ti cercano per una carezza, quasi fosse più importante del cibo. Altri ancora sono terrorizzati dall’idea di ricevere ancora calci o di essere allontanati da spruzzi di candeggina negli occhi. O quando vedi frustare a sangue le mucche che si trascinano per strada. In un momento storico in cui parte della popolazione mondiale chiede giustizia per un Pianeta allo stremo, ma in cui le più alte sfere sembrano ancora troppo impegnate ad organizzare l’ennesima giornata celebrativa di un habitat o di una specie, e un parterre di ospiti illustri, come tanti uomini pirandelliani ridotti a mani che girano una manovella, raccontano a gran voce l’importanza delle azioni individuali, quello da cui spesso mi sento sopraffatta è l’eco di quella che Hannah Arendt definì la banalità del male. Siamo una società che forse non agisce secondo un’indole maligna ma siamo altrettanto, purtroppo, ancora inconsapevoli del vero significato delle nostre azioni.
È la domanda che pongo a tutte le persone che ho incrociato lungo questa lunga strada tra due continenti così ricchi di storia, di tradizioni e di natura da rendere ogni giorno una storia degna di essere raccontata. E seppur con una vena di fatica che, per un attimo, fa tentennare la loro voce, tutti mi hanno sempre risposto che “non abbiamo alternative. Ecco, dunque, che arrivata a metà di questa spedizione, la prima verità quasi scientifica che ho annotato nel mio quaderno di appunti, è che se vogliamo salvare il mondo così come lo conosciamo, dobbiamo farci guidare dalla speranza, dall’empatia e… dalla scienza. Tre elementi che sembrano così lontani tra loro e che invece sono l’una il motore dell’altra.
Perché la scienza ci permette di continuare a porci delle domande, ci fornisce dati e talvolta risposte che, e qui è il suo bello, possono essere sempre rimesse in discussione.
L’empatia ci aiuta a vedere in ciò che per troppo tempo abbiamo reputato diverso, persino inferiore, a noi, un alleato e un elemento imprescindibile della nostra esistenza.
La speranza, invece, ci regala l’energia per continuare a desiderare di camminare in una foresta in cui decine di occhi diversi ci osservano in silenzio, di tuffarci in mari e oceani abitati da creature antiche, di ascoltare storie provenienti da mondi lontani che sappiamo essere lì, con il loro alone di mistero. Perché niente è più spaventoso che pensare di svegliarsi, un giorno, in un mondo privo di meraviglia.
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