La Cop16 sulla biodiversità si conclude con pochi passi avanti. Cosa resta, al di là della speranza?
Si è conclusa il 2 novembre la Cop16 sulla biodiversità, in Colombia. Nonostante le speranze, non arrivano grandi risultati. Ancora una volta.
La biofilia richiama un legame ancestrale, tra l’uomo e la natura. Una tendenza innata che abbiamo per concentrarci su tutto ciò che ha vita.
Come capire cosa racchiude la parola biofilia? L’occhio umano può distinguere tra centomila e dieci milioni di sfumature di colore. I report biomedici dicono con certezza che è il verde il colore del quale l’essere umano può distinguere il maggior numero di sfumature in assoluto: riconosciamo alcune centinaia di sfumature di verde e solo alcune decine degli altri colori. La comunità scientifica concorda sull’origine evolutiva di questo fatto. Il verde è il colore più comune in natura e l’homo sapiens per aumentare le proprie possibilità di sopravvivenza ha imparato presto a distinguere, nel verde dominante della savana o della foresta, le tonalità che potevano segnalare la presenza di cibo o predatori. Questo elemento è il primo sul quale la comunità scientifica si è interrogata per indagare rispetto al rapporto che l’uomo ha con la natura. Il risultato unanime ci racconta che il nostro è un legame ancestrale, è un’intima attrazione biologica, come un’impronta indelebile presente nel nostro codice genetico: in una parola è la biofilia.
Non basta definire la biofilia letteralmente come amore per la vita o ciò che è vivo. Nel corso degli ultimi decenni psicologi ambientali e biologi hanno dato diverse definizioni a questo concetto. Lo psicologo Erich Fromm negli anni sessanta ha introdotto il concetto di biofilia come tendenza psicologica ad essere attratti verso tutto ciò che è vivo e vitale. Ma è stato Edward O. Wilson nel suo libro Biophilia del 1984 e poi nel 2002 a darne la spiegazione più completa.
La biofilia è la tendenza innata a concentrare la nostra attenzione sulle forme di vita e su tutto ciò che le ricorda e, in alcune circostanze, ad affiliarvisi emotivamente.
Traducendo queste definizioni nella quotidianità, secondo “l’ipotesi della savana” del biologo americano Gordon Orians, infatti, anche se non abbiamo più l’esigenza di avere rifugi di questo tipo, una casa posta in alto con un’ampia vista panoramica, un bel verde intorno con abbondanza di piante e animali e un corso d’acqua vicino costituisce il nostro habitat preferito. Queste condizioni dell’ambiente corrispondono alle nostre preferenze estetiche perché sono le stesse che i nostri antenati hanno vissuto in mezzo alla foresta o alla savana. Per questo motivo alcune caratteristiche ambientali si sono in qualche modo fissate nel nostro patrimonio genetico: hanno permesso la sopravvivenza e l’evoluzione dell’umanità.
Il legame tra noi e la natura, questo attaccamento affascinante e romantico pur nella rigidità della sua spiegazione scientifica è diventato l’oggetto dell’ecologia affettiva, il settore dell’ecologia che si occupa delle relazioni affettive che intercorrono tra esseri umani e il resto mondo vivente. Il sentimento di affiliazione che ci lega alla natura è un istinto e come tale è presente in tutte le culture umane, comprese quelle più tecnologicamente avanzate come la nostra, che si stanno progressivamente allontanando dagli elementi naturali: le nostre città sono sempre più immerse tra skyline di vetro e cemento, dispositivi iper-connessi a realtà virtuali e relazioni svuotate dal digitale.
Per fortuna è vero anche che parallelamente a questo proliferare di innovazione tecnologica e architettura futurista, la tendenza è quella di integrare nel paesaggio urbano sempre più iniziative di forestazione e interventi di design biofilico sulle strutture esistenti e sulla progettazione di spazi nuovi. Anche gli effetti di queste scelte urbanistiche incidono sul potere che la natura ha di agire su di noi a un livello psichico profondo. L’ambiente che ci circonda riesce a modificare la nostra salute e il nostro benessere quotidiano in termini di rigenerazione dalla fatica mentale e riduzione dello stress. Questo avviene in ogni momento della nostra vita sia che siamo affacciati alla finestra di casa nostra, sia che ci troviamo al lavoro, se siamo a scuola, se siamo in una struttura sanitaria in attesa di fare una visita o anche se stiamo semplicemente passeggiando per le strade della nostra città. In qualsiasi di questi contesti l’elemento che viene coinvolto e che incide sul nostro benessere è l’attenzione. Perché e in che modo l’attenzione è influenzata da certi ambienti naturali?
Stephen Kaplan, psicologo della Michigan University, offre la Attention restoration theory come strumento per comprendere come l’ambiente naturale influenzi la nostra attenzione e di conseguenza il nostro benessere. L’attenzione diretta riesce ad inibire stimoli concorrenti o distraenti mentre si svolge un compito e se viene sottoposta ad un intenso e prolungato utilizzo si esaurisce facendo comparire la fatica mentale, aumentando la distrazione e inducendo più frequentemente comportamenti impulsivi ed ostili. L’attenzione involontaria, invece, non richiede alcuno sforzo ed è resistente alla fatica, permette all’attenzione diretta di riposarsi e rigenerarsi fino a tornare ai livelli normali di efficienza. Il dato importante è che sappiamo come alcuni ambienti naturali permettano all’attenzione diretta di riposare e rigenerarsi. Per questo motivo la maggior parte dei paesaggisti architetti e non solo le archistar più all’avanguardia si ispirano sempre più ai principi del design biofilico per disegnare un ambiente urbano sempre più verde, con spazi adeguati alle relazioni umane, per favorire il contatto empatico tra esseri umani e tra questi e il mondo naturale, e prevedere spazi di ritiro e di solitudine dove la percezione della bellezza del mondo si fonde con la spiritualità più intima.
Pensate di entrare in una scuola, una casa, un ospedale o un ufficio. Se riuscite a sentirvi accolti nell’ambiente che vi circonda come se foste all’esterno abbracciati dalle piante, riuscendo a percepire il profumo del legno o sentire il suono dell’acqua, un suono dolce e continuo come quello di un ruscello, se riuscite a ricevere la luce naturale che arriva dall’alto e potete vedere il cielo dalle finestre ampie davanti o sopra di voi, siete sicuramente in un ambiente progettato secondo i principi del biophilic design o design biofilico.
Gli effetti positivi che ha su di noi una progettazione degli spazi come questa sono misurabili attraverso la Evidence based design (Ebd), un metodo scientifico per comprendere come l’ambiente costruito influenzi il comportamento degli individui.
I risultati delle ricerche Ebd ci raccontano i vantaggi che alcune categorie di strutture architettoniche con queste caratteristiche producono su di noi. Per esempio:
Tutti questi vantaggi riferiti al benessere psico-fisico hanno evidentemente una ricaduta positiva anche in termini economici per tutte le strutture che godono di spazi progettati secondo il biophilic design. Esiste poi una particolare forma di progettazione degli spazi esterni e interni verdi, gli healing gardens o giardini rigenerativi e terapeutici. Partiamo da qui. Nel 1984, in due pagine su Science, il ricercatore architetto Roger S. Ulrich presenta i risultati di uno studio sui tempi di recupero di pazienti operati di colecisti in un ospedale suburbano della Pennsylvania. In tutti gli indicatori usati come la durata del ricovero postoperatorio, la valutazione degli infermieri, il dosaggio di analgesici, i pazienti con un letto che dava su un giardino alberato mostravano performance significativamente migliori rispetto a quelli che guardavano un muro. Quella “finestra sul cortile” ha convinto Ulrich a iniziare a lavorare sugli effetti positivi che le scene della natura hanno sulla salute. Più avanti il sociologo John Zeisel chiamerà quegli ambienti naturali healing gardens.
È l’Organizzazione mondiale della sanità ad aiutarci a definirlo, partendo dal concetto di health, cioè di salute, che non è l’assenza di malattia ma uno stato di complessivo benessere fisico, mentale e sociale. Proprio grazie a questa definizione possiamo quindi descrivere un healing garden come uno spazio esterno o interno progettato per migliorare la salute e il benessere delle persone.
Esistono diversi tipi di healing gardens che a loro volta cambieranno nei criteri di progettazione in funzione del pubblico specifico che li vivrà. Secondo l’American horticultural therapy association (Ahta), il therapeutic garden può essere considerato un tipo di healing garden, in quanto rappresenta una componente del trattamento terapeutico ed è progettato affinché vi ci si possano realizzare specifiche attività terapeutiche (fisiche, occupazionali, orticolturali), parte integrante di un programma di trattamento condotto da personale sanitario.
Il restorative garden è invece un tipo di healing garden, non necessariamente annesso alle strutture di cura e assistenza, progettato per il benessere fisico, psicologico e sociale degli utenti, per favorire la riduzione dello stress, la rigenerazione del livello di attenzione, il recupero dall’affaticamento mentale, il ripristino delle energie mentali e fisiche. Per questo motivo il restorative garden gode di un campo di applicazione trasversale e può essere efficace, osservando le diverse esigenze del pubblico che lo vivrà, nelle scuole, nelle aziende, negli spazi verdi urbani, nelle case e nei luoghi di intrattenimento e ricreativi.
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