La bioluminescenza è nata sott’acqua circa 540 milioni di anni fa. Gli octocoralli, antenati dei coralli molli, hanno evoluto per primi la capacità di produrre luce durante il periodo Cambriano. Ingegnoso strumento di comunicazione, predazione e difesa.
In ogni momento, da milioni di anni, migliaia di luci si accendono nel buio degli abissi. Come lucciole in viaggio nel mare. Coralli, alghe, pesci, piccoli crostacei o invertebrati invisibili brillano oscillando in profondità o risplendono tra le onde che si infrangono a riva.
La bioluminescenza, la capacità degli esseri viventi di produrre luce attraverso reazioni chimiche, è un fenomeno complesso, eppure sorprendentemente comune nel regno animale, evoluto almeno 94 volte in maniera indipendente. A oggi si riscontra in circa tremila specie, ma già 540 milioni di anni fa gli octocoralli, antenati di coralli molli, gorgonie e penne di mare, se ne servivano per varie funzioni, tra cui attirare prede e comunicare nella fascia più oscura dei mari, quella cosiddetta afotica, dove cioè non arriva la luce del Sole. Lo ha rivelato un nuovo studio condotto dai ricercatori dello Smithsonian National museum of natural history di Washington, pubblicato sui Proceedings of the royal society B, che data la nascita della bioluminescenza a un tempo quasi due volte più remoto di quanto stimato finora. Si pensava infatti che l’origine più antica di questa capacità biochimica risalisse a circa 267 milioni di anni fa, e che fosse sorta negli ostracodi, piccoli crostacei in grado di produrre luce azzurra, anche in maniera sincronizzata, coinvolgendo migliaia di esemplari all’unisono nel periodo riproduttivo. Sono loro che trasformano le spiagge tropicali in paesaggi surreali e fosforescenti, come un incantesimo o un gioco di magia.
La bioluminescenza è stata una delle prime forme di comunicazione negli oceani, forse una delle prime sulla Terra.
Andrea Quattrini, ricercatrice
Un fenomeno avvolto nel mistero
La bioluminescenza è il prodotto della reazione chimica tra la proteina luciferina e l’enzima luciferasi che determina l’emissione di luce negli organismi viventi. In ambiente marino avviene attraverso organi specifici, i fotofori, costituiti da cellule chiamate fotociti.
Produrre luce propria è funzionale per cacciare, confondere i predatori e mimetizzarsi, per indicare il pericolo, intontire le prede, cercare i partner. E negli abissi, in un mondo oscuro isolato nel silenzio più assoluto, anche una piccola scintilla può fare la differenza tra la vita e la morte. Le strutture che permettono la reazione luminosa sono rimaste quasi identiche nel tempo e sono presenti in gruppi viventi molto lontani tra loro a livello evolutivo, testimoni di un fenomeno ubiquitario e piuttosto comune, la cui storia è rimasta a lungo avvolta nel mistero. Il passato e i meccanismi che hanno permesso una diffusione così ampia, infatti, sono molto difficili da studiare: la bioluminescenza è un comportamento che non lascia tracce nei fossili e, per dirla con le parole degli autori della ricerca, “nessuno sa davvero perché il fenomeno sia comparso nel mondo animale”.
A complicare ancora di più la vicenda, i fossili degli organismi bioluminescenti spesso neanche esistono. I coralli molli, infatti, non formano barriere coralline di materiale calcareo, ma costruiscono colonie di polipi espellendo una struttura flessibile, in cui sono incorporati solo minuscoli frammenti di materia simile a uno scheletro.
Le analisi genetiche sugli alberi della luce
Per spiegare le ragioni per cui si sia evoluta questa capacità biochimica, secondo gli esperti era necessario sapere quando avesse fatto la sua prima comparsa sulla Terra. I ricercatori hanno deciso quindi di scavare a ritroso nella storia evolutiva degli octocoralli, un antico gruppo di animali che si illuminano solo se disturbati dall’esterno. Questa condizione ha sempre suscitato grande interesse nella comunità scientifica, tanto che nel 2022 Andrea Quattrini e i suoi collaboratori avevano svolto analisi genetiche approfondite, ricostruendo la filogenesi di 185 specie. E proprio all’interno di questo albero della vita hanno individuato i rami che contenevano le specie luminose. Poi, partendo dalle due meglio conosciute e adottando una serie di tecniche statistiche, sono riusciti a collocare nel tempo l’origine del fenomeno.
Deepwater coral specialist Andrea Quattrini’s new paper pins the origin of bioluminescence in corals to more than 500 million years ago. https://t.co/t2pe4vwLhj
— Smithsonian Magazine (@SmithsonianMag) May 30, 2024
L’esplosione del Cambriano
“Il nostro studio dimostra che la bioluminescenza esiste almeno dal periodo Cambriano, intorno ai 540 milioni di anni fa, quando gli animali si spostarono per la prima volta dalle zone superficiali degli oceani alle profondità dove non arriva la luce” ha spiegato la responsabile dello studio. E allora tutto torna. Era proprio quella l’epoca in cui la Terra passava dall’essere popolata da organismi semplici e unicellulari a una eccezionale varietà di forme di vita, quando in atmosfera si alternavano forti aumenti e brusche diminuzioni dei livelli di ossigeno. Nel corso di poco più di tredici milioni di anni è avvenuta una rapida diversificazione di nuove specie animali, conosciuta come “esplosione del Cambriano” con picchi evolutivi e grandi estinzioni. E, neanche a dirlo, è stato anche il periodo in cui si sono sviluppati i primi rudimentali sensori della luce.
In un momento di così grande transizione evolutiva, la bioluminescenza è diventata l’ingegnoso strumento comunicativo che i coralli hanno sviluppato per confondere le prede o spaventare i predatori.
Ma c’è di più. Nello studio, i ricercatori hanno sottolineato la dipendenza delle reazioni luminose dalla presenza di ossigeno nell’acqua. I risultati suggeriscono quindi che la bioluminescenza si è evoluta come strategia di disintossicazione per eliminare dall’organismo le forme reattive dell’ossigeno, i radicali liberi, con la produzione di luce come sottoprodotto secondario.
La capacità di produrre luce è diffusa negli habitat ad almeno duecento metri sotto il livello del mare. Perciò crediamo che l’origine del comportamento possa essere correlata a uno stile di vita di acque profonde. Per i taxa bioluminescenti che abitano più in superficie invece, la diversificazione sarebbe avvenuta in epoca più recente.
Andrea Quattrini
Nonostante le ultime novità, alcuni interrogativi rimangono ancora senza risposta. Se è stata davvero così vantaggiosa, perché alcune specie hanno perso la possibilità di illuminarsi? E come hanno fatto a perderla? Il fronte della ricerca è tuttora aperto. I prossimi studi dovranno analizzare meglio il gene che codifica per la proteina della luciferasi, presente anche negli octocoralli non bioluminescenti, per capire i meccanismi che hanno portato alcuni gruppi a perdere questo talento sorprendente. Scoprirli accenderà una nuova luce nel buio della conoscenza.
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