La nuova generazione di legni super performanti offre qualità hi-tech inattese al design e all’architettura.
Il futuro è dei biomateriali. Come i designer stanno affrontando questa sfida
Dalla moda al design, dall’architettura all’edilizia, i biomateriali e le loro applicazioni si stanno moltiplicando. Come rispondono i designer a questa rivoluzione.
Il prossimo futuro sarà popolato da materiali bio-derivati ispirati dal mondo del design. Lo si capisce osservando le proposte recenti a livello internazionale. La quantità e la vivacità delle esperienze con le quali il mondo del progetto affianca la ricerca e le sperimentazioni legate alla messa a punto di alternative sostenibili al sintetico, mostrano un futuro dei materiali che sembra modificare il profilo dei prodotti di domani. È solamente un innamoramento da parte della comunità del design o qualcosa di più rilevante?
Il futuro dei materiali è la bio-fabbricazione
Uno dei motori del cambiamento è il rapido progresso della bio-fabbricazione. Questa nuova frontiera della scienza dei materiali consente di ottenere prodotti e materiali biologici a partire da materie prime molto particolari, come molecole, cellule, o matrici extracellulari – in alcuni casi persino dalla pelle umana – e va ben al di là dei materiali naturali che conosciamo da sempre, derivati da animali o vegetali, come le fibre tessili naturali, il cuoio e le pelli, il legno o la carta.
La scienza dei biomateriali e quella della biologia cellulare lavorano da tempo per rendere disponibili su larga scala tecnologie di bio-fabbricazione utili in primo luogo in campo medicale, dove sono essenziali per indagare e prevenire malattie rare.
Queste tecnologie forniscono una valida alternativa ai materiali di sintesi utilizzati per la produzione di energia sostenibile da destinare alla futura industria dei biocarburanti, senza dimenticare che sono anche utili per sviluppare un’agricoltura e un’industria alimentare senza animali, come evidenziato dalla crescita sempre maggiore del consumo vegano.
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È meno noto invece, il fatto che le tecnologie di bio-fabbricazione stiano portando alla creazione di materiali bio-derivati di design, da applicare nell’edilizia, nell’architettura di interni e nel design industriale.
In alcuni casi è il design stesso ad attivare sperimentazioni dove i progettisti, collaborando con biologi e ingegneri, creano nuovi materiali che vengono così definiti design-driven.
I biomateriali che nascono dal design
Modern Meadow
Una di queste realtà, probabilmente la più significativa in tal senso, è Modern Meadow, uno studio di progettazione e ricerca statunitense, pioniere nella bio-fabbricazione di materiali avanzati, che ha il preciso scopo di offrire nuove possibilità di design. Modern Meadow è nato dalla convinzione che “la collaborazione multidisciplinare tra design, biologia e scienza dei materiali possa portare a metodi più intelligenti di produzione di materiali evoluti, ispirati alla natura e basati sugli elementi essenziali della vita sul nostro pianeta: cellule, dna e proteine modificate“.
Scientist and professor, Robin E. Bell says “I think it’s pretty cool when I can wear my science.” #sdgstudyhall @theslowfactory
— Modern Meadow (@ModernMeadow) January 31, 2020
Da questo studio di progettazione e ricerca applicata, con sede a Brooklyn, è nato il marchio Zoa, che rappresenta una famiglia di materiali innovativi basati su una proteina di collagene studiata ad hoc nel laboratorio della società statunitense. Questa ha dato origine, fra gli altri, a un nuovo materiale totalmente bio-fabbricato, ispirato alla pelle animale, che qualcuno ha ribattezzato “cuoio liquido” per la versatilità di lavorazione che lo contraddistingue.
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Biofaber
È italiano, invece, il progetto della startup pugliese Biofaber nata con l’intento di proporre nuovi biomateriali nanostrutturati basati sulla cellulosa di origine batterica.
Biofaber è un’industria guidata dalla designer Mariangela Stoppa e un perfetto esempio di economia circolare: il processo produttivo dell’azienda si basa sulla simbiosi di batteri e funghi, già presenti in svariati prodotti alimentari.
La trasformazione avviene in una coltura acquosa arricchita con gli zuccheri degli scarti alimentari – come melasse, sanse, o acque di vegetazione delle olive – dai quali i microrganismi sintetizzano la cellulosa nanostrutturata, che si auto-assembla a temperatura e pressione ambiente e cresce in poche settimane.
Nasce così un polimero nanostrutturato biocompatibile, personalizzabile sul piano delle specifiche caratteristiche: se necessario può essere reso anti-odore, essere sterilizzato o reso idrorepellente.
We need regulation changes in the textile and leather industry when it comes to coloring and dyeing fabrics and there is a small concentration of suppliers worldwide – Karin Fleck of the #ViennaTextileLab on stage at @Biofabricate_
— Modern Meadow (@ModernMeadow) December 5, 2019
Da questa base tecnologica e produttiva l’azienda di Brindisi, ha realizzato un materiale che può sostituire in certe applicazioni la pelle animale e una serie di materiali, sotto forma di idrogel, rivolti al settore medicale e biocosmetico. La tendenza a introdurre produzioni bio-generate non riguarda solo il design, ma anche la moda, dove per alcuni aspetti, i biomateriali hanno maggiori probabilità di applicazione, date le caratteristiche di performance richieste, tecnologicamente meno complesse.
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I biomateriali nel mondo della moda
Launch fabric
Launch fabric, guidata della designer Suzanne Lee (direttrice creativa di Modern Meadow) e costola della omonima piattaforma statunitense di innovazione Launch (fondata, per identificare e promuovere idee innovative per un mondo più sostenibile), sviluppa progetti di bio-couture, collaborando, fra gli altri, con nomi quali Nasa, Nike e Ikea per lo sviluppo di progetti di economia circolare per il mondo della moda, che abbiano come protagonisti materiali bio-derivati. Lee è nota soprattutto per Biofabricate, la società di consulenza composta da un team di designer ed esperti di scienze biologiche che lavorano tra Stati Uniti e Regno Unito. L’azienda supporta istituzioni e aziende per introdurre all’interno dei processi di creazione di prodotti sostenibili dei materiali biofabbricati. https://youtu.be/3p3-vl9VFYU Non mancano esperienze concrete con materiali e tecnologie bio-fabbricate da parte delle industrie, anche se molte di queste sono ancora limitate a progetti speciali.
Amsilk
È il caso di Adidas, che è stata una delle prime aziende a impegnarsi in questa direzione. Nella fabbricazione delle proprie scarpe sono state utilizzate le fibre Biosteel dell’azienda tedesca di biotecnologie Amsilk, fornitrice industriale di seta biopolimerica, che ottiene dalla decodifica del dna del ragno applicata in seguito su un battere. Adidas ha anche prodotto un abito da tennis in biofabric, che però rimane ancora solamente un prototipo.
Spiber
Se questo rimane solo un prototipo, la startup giapponese di biotecnologie Spiber ha appena messo sul mercato il primo capo sportivo al mondo realizzato e commercializzato – per il momento solo in cinquanta esemplari – con un filato in tessuto di seta sintetica: è il Moon parka di The North Face.
Textiles, automotive, and medicine are the three domains where we will see @spiberfiber used. #NewHarvest2016 what a time to be alive! — Tennis. (@Design_Tennis) July 13, 2016
Le università di design come incubatori dei biomateriali
Sono molte le città europee nelle quali le scuole di design offrono master dedicati ai materiali di domani. Ovunque nel mondo le università di design si stanno trasformando in incubatori di innovazione nel campo dei materiali: è proprio qui che sempre più spesso vengono proposti percorsi di studio che educano i giovani designer a lavorare alla progettazione di materiali a basso impatto ambientale, con biologi, chimici e ricercatori.
Un numero sempre maggiore di studenti di design dedica i propri master e dottorati allo sviluppo di nuovi materiali bio-derivati. Così come è successo frequentemente negli ultimi anni, la creazione di startup e nuovi laboratori sperimentali all’interno delle facoltà di design, viene favorita da concorsi speciali e raccolte di fondi pubblici. La maggior parte dei designer che frequentano questi acceleratori di innovazione possono apparire come bricoleur, dei dilettanti della nuova era, ma a ben vedere potrebbero anche rappresentare una vera e propria avanguardia eroica che cerca di fare da sé ciò che ancora la grande industria non vuole o non è in grado di fare.
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Green Lab
Green Lab è uno di questi luoghi. Si tratta di un laboratorio aperto sia ai singoli designer, che a organizzazioni o aziende, con sede a Bersmondey, nella zona ovest di Londra, nel Regno Unito. Nato come incubatore di economie circolari, dove immaginare e testare aspetti inesplorati della catena del cibo, dei rifiuti e degli organismi viventi, Green Lab è oggi un luogo dove negli ultimi anni sono passati molti dei giovani designer con un master in future materials, i materiali del futuro. Perché oltre a garantire una rete di relazioni con le principali realtà britanniche del sostenibile, questo laboratorio fornisce ai biodesigner luoghi dove “cucinare” i nuovi materiali, come il laboratorio di biologia Grow Lab, laboratori e utensili per il “fai-da-te”, e spazi di archiviazione per progetti ed esperimenti.
Non è raro che da realtà come questa nascano startup efficienti anche sul piano del profitto e in grado di dare origine a forniture alternative per l’industria del semilavorato e del prodotto finito, seppure con raggio d’azione per lo più locale.
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Le startup che sperimentano con i biomateriali
Ponto biodesign
La designer guatemalteca Elena Amato, dopo essersi laureata in design con un progetto sui biomateriali, ha creato, insieme alla ricercatrice Caroline Pagnan, un laboratorio sperimentale di bio-fabbricazione chiamato Ponto biodesign.
L’obiettivo era quello di sviluppare un involucro a base di cellulosa batterica da destinare a un nuovo concetto di packaging per il settore cosmetico. È nata così una nuova materia prima, originata in questo caso dallo sviluppo di batteri e colture di lievito, che mescolati con acqua e successivamente essiccati, vengono trasformati in un foglio con una qualità a metà tra la carta e la plastica.
Questi nuovi materiali, che i designer creano a partire da risorse locali e che producono localmente, riducono ulteriormente il trasporto delle materie prime.
Totomoxtle
Esattamente come aveva fatto alcuni anni fa il designer messicano Fernado Laposse con il progetto Totomoxtle. Si tratta di un materiale per impiallacciatura ottenuto da gusci di mais messicano, che viene processato a bassa tecnologia in loco e che è diventato espressione della diversità dei semi nativi.
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Di esempi come questi se ne potrebbero elencare molti. I settori interessati da questa rivoluzione sono numerosi: dal mondo dei tessili e della moda, alla calzatura e agli abiti sportivi; dall’imballaggio, all’interior design e l’architettura. E visitando le design week di Londra e Amsterdam, quest’anno, l’impressione è stata che il giovane design europeo stia coltivando una particolare attitudine a investire sui materiali bio-derivati.
I designer come sviluppatori e auto-produttori
Chi c’è dietro tanto fermento? I giovani designer sono i nuovi alchimisti. Definiscono obiettivi che sono sfide di innovazione, creano i propri laboratori, si associano a chimici e ricercatori e sperimentano, per arrivare ai risultati che si erano prefissati. In altre parole, autoproducono i nuovi materiali, disegnandone i connotati strutturali oltre che estetici, decidendo da cosa originarli – natura o riciclo – e come trasformarli in risposte alternative ai materiali tradizionali, deboli sul piano ambientale, o incapaci di adeguarsi alle nuove esigenze del vivere.
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Lindasy Ann Hanson era ancora una studentessa di design quando ha messo a punto, insieme a Margot Vaaerpass e Zaki Musa, il progetto Immunotex, realizzato per l’annuale Bio-design challenge della Central Saint Martins, un’accademia d’arte londinese. Si tratta di una startup di abbigliamento da viaggio, che crea abiti e calzature in grado di proteggere i viaggiatori dalla crescente minaccia di batteri resistenti agli antibiotici. La sperimentazione ha portato al progetto delle Resistance runner, calzature sportive in tessuto bio-formulato che utilizzano batteriocine per proteggere il viaggiatore da potenziali contaminazioni batteriche.
Le batteriocine sono sostanze prodotte da alcuni batteri, in grado di contrastare la crescita di batteri filogeneticamente vicini. Recentemente sono state esplorate come alternative agli antibiotici tradizionali nell’allevamento industriale del bestiame, e utilizzate come metodo per conservare gli alimenti proteggendoli dalle contaminazioni. Come è noto, negli ultimi anni i batteri di resistenza agli antibiotici sono diventati sempre di più e rappresentano una potenziale minaccia per la salute pubblica degli anni a venire.
La biodesigner Jen Keane, invece, ha messo a punto un interessante processo di “tessitura microbica” manipolando il processo di crescita di un batterio – il k. rhaeticus –, che si trova comunemente nel tè di kombucha, creando così un nuovo materiale più forte dell’acciaio e più resistente del kevlar, una fibra sintetica. Questo nuovo materiale è personalizzabile e completamente compostabile e le ha permesso di realizzare un modello di calzature sportive bio-derivate, che ha presentato nel progetto This is grown.
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Successivamente Jen Keane e il biologo sintetico Marcus Walzer hanno sviluppato un batterio auto-tingente, capace cioè di produrre cellulosa e melanina, che ha permesso di ottenere This is gmo, la prima tomaia di sneakers “coltivata”, tessuta e tinta da un singolo organismo geneticamente modificato, compostabile al cento per cento e totalmente priva di materiali sintetici o coloranti. Il progetto è esposto su The mills fabrica di Hong Kong, una piattaforma aperta per facilitare la collaborazione tra start-up, marchi, venditori e istituti di ricerca.
In Danimarca, Jonas Edvard, designer e artista che lavora alla sperimentazione di materie prime naturali, ha messo a punto un materiale che ha chiamato Gesso, in italiano, derivato dalle grandi barriere coralline nordiche, dove comunemente il calcare di corallo macinato viene convertito in blocchi da costruzione. La barriera corallina nordica è un deposito minerale naturale, che si estende per oltre duemila metri quadrati e contiene calcare di alto valore oltre a una grande quantità di fossili dei tempi antichi, sepolti nei diversi strati bianchi. Normalmente questo calcare di corallo viene estratto e utilizzato per produrre cemento e fertilizzante. Edvard invece ne ha prodotto un composito calcareo completamente naturale, costituito da carbonato di calcio, un legante organico e alcuni pigmenti, con cui sta realizzando arredi e lampade che autoproduce in Danimarca.
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Gli sviluppi che nascono dal cibo
Anche l’utilizzo degli scarti della lavorazione del cibo rappresenta un futuro possibile che chi autoproduce localmente. Una frontiera che è stata esplorata più volte, dando origine a una serie di nuovi, inattesi materiali.
Nel Regno Unito, Blast studio, (acronimo di Biological laboratory of architecture and sensitive technologies, laboratorio biologico di architettura e tecnologie sensibili) ha messo a punto un progetto nel quale la pasta di carta ottenuta dalle tazze per il caffè usate, raccolte dalle caffetterie di Londra, viene resa commestibile dal micelio dei funghi, che trasforma il rifiuto in un materiale biologico e vivente utilizzabile per realizzare arredi e oggetti. Per rendere la pasta di carta commestibile, i tre fondatori di Blast hanno disegnato oggetti dalle forme alettate capaci di trattenere l’umidità e favorire la crescita del fungo che consente la produzione della nuova materia bio.
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I biomateriali dal caffè
Sempre nel Regno Unito il designer Atticus Durnel ha messo a punto That’s caffeine, un materiale ottenibile da fondi di caffè usati, aggregati con bio-leganti, minerali e una resina a base vegetale. Leggero, biodegradabile, resistente all’acqua e alle alte temperature, That’s caffeine viene lavorato da Durnel con strumenti tradizionali, come la sega circolare, o utilizzato in stampi, per produrre oggetti commercializzati on line.
I biomateriali dai gusci d’uovo
La giovane designer Midushi Kochhar ha sperimentato con la trasformazione dei gusci d’uovo della ristorazione, per realizzare, con questi rifiuti calcarei, stoviglie usa e getta biodegradabili come alternativa alla plastica monouso, propria del cibo di strada. Un materiale che, opportunamente trattato, potrebbe avere anche altre applicazioni, come la realizzazione di pannelli per interni, arredi o costruzioni.
I biomateriali dalle arance
Ma veniamo all’Italia. Alcuni anni fa, la startup Orange fiber, ha brevettato e prodotto un vero e proprio materiale dagli scarti della lavorazione degli agrumi siciliani. Si tratta del primo tessuto al mondo totalmente sostenibile: un materiale tessile impalpabile, morbido e molto simile alla seta, destinato alla moda a basso impatto ambientale. In un mondo inclusivo e abituato a condividere come quello del design di ultima generazione, questi “materiali-marchio” rappresentano modelli di business da diffondere, che altre persone, in altre aree locali, potrebbero riprodurre e a loro volta sviluppare.
E poi c’è il micelio
La riqualificazione degli scarti della lavorazione agroalimentare rappresenta qualcosa di più ampio e non solamente una risorsa da condividere. Dal locale al globale il passo potrebbe essere breve: ci sono i numeri per una produzione massiva di bio-materiali derivati da questo tipo di scarti. E già sta emergendo un nuovo protagonista del futuro dei materiali basati su materie prime biologiche: il micelio. Biologicamente il micelio è l’apparato radicale vegetativo dei funghi. È formato da un fitto intrico di filamenti in cui scorre il protoplasma, composto da amminoacidi, proteine, lipidi e polisaccaridi. Il materiale che ne deriva potrebbe considerarsi a tutti gli effetti un polimero. Il vantaggio del micelio, che spiega l’interesse di ricercatori e progettisti, è che svolge un insostituibile ruolo di aggregante naturale che permette di ottenere nuovi materiali dagli scarti organici. I funghi infatti tendono a crescere su qualsiasi materiale organico che contenga cellulosa, un polisaccaride naturale a base di zuccheri di cui si cibano.
Il caso di Mogu
All’utilizzo del micelio per la creazione di biomateriali per l’architettura e l’interior design, sta lavorando Mogu, un’azienda europea con sede in Italia, in provincia di Varese, nata dall’unione fra due startup, una italiana e una olandese, specializzate nel progetto di materiali generati da funghi che si nutrono di scarti organici.
Fondata da Maurizio Montalti con Stefano Rabbini, Federico Grati e Natalia Piatti, Mogu ha messo a punto recentemente pannelli acustici e pavimentazioni ad alta resilienza a impatto zero, completamente biodegradabili, basati esclusivamente su sostanze biologiche. Risultato di cinque anni di ricerca e sviluppo della tecnologia del micelio, i materiali Mogu sono stati ottenuti coltivando il micelio su fibre organiche di scarti agricoli o alimentari a freddo, dopo la loro depurazione da microrganismi nocivi al fungo per la sua crescita.
Il caso di Ecovative
Sui miceli da funghi provenienti dagli scarti della lavorazione alimentare lavora anche l’americana Ecovative, di New York, che ha realizzato con materiali di questa stessa famiglia un packaging alternativo al polistirene classico, che si chiama Mycocomposite. In una decina di giorni, la materia prima si sviluppa e diviene stabile e una volta tritata si può scegliere se stamparla o farla crescere direttamente in stampi su disegno ad hoc per ottenere un materiale flessibile, leggero, resistente agli urti, e impermeabile ad acqua e fuoco.
Here at Ecovative, we are combining the old with the new – we are taking our Mushroom® Packaging that has been in our facility for nearly a decade and transferring our production equipment to a facility 4x the size in Paradise, California. ▸ https://t.co/zydeszaRL9#ocean pic.twitter.com/RmVvqPbJ21 — Ecovative (@ecovative) February 10, 2020
Sviluppato nel 2007, Mycompostite è un materiale per imballaggio ad alte prestazioni, completamente a base biologica e certificato c2c gold, che garantisce le produzioni circolare e diverse. È stato utilizzato da diverse aziende, tra le quali Ikea, all’interno di politiche di riduzione degli impatti ambientali.
Anche dalla plastica possono nascere dei biomateriali
Non possiamo dimenticare infine che anche le bioplastiche di origine naturale, derivate da microganismi sottoposti a particolari condizioni di stress cellulare, sono materiali che il design oggi abbraccia, sperimenta e sostiene proprio perché rappresentano una nuova generazione di plastica circolare, testimone del valore estetico e non solo d’uso, che può determinare scelte consapevoli di prodotto.
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La lezione della storia
Il vantaggio della bio-fabbricazione è indubitabile: offre sempre maggiori alternative valide ad un’industria abituata ad utilizzare materiali di sintesi; materiali che oggi, a causa degli impatti ambientali, sono senza futuro e vanno indiscutibilmente rivisitati o sostituiti. E anche l’interesse di progettisti e aziende a favore dei biomateriali suona come positivo dal punto di vista qualitativo.
La lezione della storia tuttavia, ci chiede cautela.
I materiali di sintesi furono sviluppati come alternativa ai materiali naturali che erano inidonei alla produzione industrializzata. Oggi , in un mondo dove è la natura a fornire un’alternativa a quei materiali di sintesi, non possiamo non considerare che nessuno di noi sa cosa potrà accadere veramente quando la materia coltivata prenderà piede su larga scala.
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Coltivare i materiali richiede quanto meno di domandarci se una sostituzione massiva nella direzione bio potrà davvero permettere all’industria e alla società non solo di ripristinare, ma anche, e soprattutto, di mantenere un nuovo equilibrio ambientale che possa conciliarsi con il futuro.
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