Il concerto milanese per Gaza, un successo di pubblico e raccolta fondi, è stata la presa di posizione più forte contro il genocidio della scena musicale italiana.
Perché anche chi non è fan di M.I.A. dovrebbe guardare il documentario biografico
Il biopic Matangi / Maya / M.I.A. è una riflessione sull’immigrazione e sulla società multiculturale dove musica, arte e impegno politico crescono insieme.
“Ci usano come capri espiatori per la Brexit, per costruire un muro, ma la gente si è sempre mischiata, spostata ed è per questo motivo che accadono cose interessanti”. Potrebbe riassumersi in questa affermazione di M.I.A. sull’immaginario dei migranti e sulla mescolanza come risorsa il senso del documentario biografico Matangi/Maya/M.I.A., che la ritrae da ragazzina immigrata nella Londra dei primi anni Novanta fino alla popstar di fama mondiale come la conosciamo oggi.
Il biopic sulla rapper anglo-cingalese, dopo il premio speciale della giuria all’ultimo Sundance film festival e altri riconoscimenti internazionali, è arrivato anche in Italia, proiettato in anteprima al Biografilm di Bologna e poi al Festival Mix di Milano in attesa di essere distribuito da I Wonder Pictures. Estratto da oltre 700 ore di registrazioni personali fatte negli ultimi 22 anni dalla stessa Maya Arulpragasm e dai suoi amici più cari, tra cui il regista del documentario Steve Loveridge, Matangi/Maya/M.I.A. mostra il percorso umano e artistico della cantante, portavoce inconsapevole ma indipendente di un’intera generazione post-globale.
Il successo di un’immigrata di periferia
Fuggita dalla guerra civile dello Sri Lanka con la sua famiglia prima di compiere dieci anni, Maya si trasferisce in India e poi nel Regno Unito, lasciando dietro di sé il padre e i suoi presunti legami con il controverso gruppo ribelle delle Tigri Tamil. Cresce da rifugiata e con pochi mezzi in un complesso residenziale nella periferia sudovest di Londra, dove non parla l’inglese e viene presa in giro a scuola, ma da cui assorbe suoni e visioni. Il filmato ben descrive il momento in cui l’artista, traendo ispirazione dalle proprie radici, crea l’alter ego M.I.A. dove incanala le molteplici sfumature della sua identità.
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La sua musica nasce dal mash-up tra la determinazione per la causa Tamil, le sperimentazioni condotte da studentessa alla scuola di belle arti, i ritmi hip hop, internet e le rivendicazioni della generazione multiculturale da cui proviene. Inseparabile dalla sua videocamera digitale, che la accompagna anche durante le battaglie con l’industria discografica e i media, M.I.A. cresce di pari passo con la sua fama diventando uno dei personaggi più schietti, provocatori ed enigmatici – in quanto non ancora pienamente compresa in tutta la sua complessità – su cui discutere nel mondo della musica.
Ritratto di un’antieroina contemporanea
Il racconto di Loveridge, che è stato in cantiere sin dal 2011 con il rischio di non vedere mai la luce, dipinge un personaggio pieno di contraddizioni e umanità, un’attivista sempre pronta a esprimersi contro l’oppressione e a richiamare la giustizia. Dalle riprese d’archivio e dalle interviste ad artisti tra cui Diplo, Kanye West, Spike Jonze e Richard Russell della XL, M.I.A emerge come l’archetipo di un’antagonista che, nonostante i traguardi raggiunti, il successo e la ricchezza, continua a lottare per l’inclusione e il riconoscimento delle differenze, siano esse di genere, etnia, credo religioso o provenienza geografica.
“Ho sempre bisogno di portare le storie dei migranti nel mio lavoro perché sto cercando di dargli un senso”, dice a un certo punto l’autrice di Borders. Mentre, in un videomessaggio rivolto al pubblico italiano, sottolinea l’importanza di vedere il film in Italia perché, più che in qualsiasi altro paese, abbiamo bisogno di “umanizzare i migranti”.
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