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Cos’è Boko haram e perché la sua avanzata terroristica non si ferma
I recenti attacchi rivendicati da Boko haram in Nigeria testimoniano che il gruppo estremista si è rafforzato ed espanso. Cos’è, come è nato e perché non si ferma.
Lo si è temuto fin da subito, nonostante si trattasse di una regione – il nordovest della Nigeria – dove i jihadisti non avevano mai compiuto attacchi di grande portata né rapimenti di massa. Il 14 dicembre Boko haram ha rivendicato in un video il rapimento di 333 studenti avvenuto l’11 dicembre nella Government Secondary School of Science, un istituto maschile nella città di Kankara, nello stato di Katsina. L’incubo che si potesse ripetere ciò che accadde alle 276 ragazze di Chibok nel 2014 è riaffiorato nelle menti dei nigeriani che sui social hanno iniziato a diffondere l’hashtag #BringBackOurBoys.
Gli ultimi attacchi di Boko haram
Un centinaio di estremisti armati di kalashnikov hanno assaltato l’istituto costringendo i circa 800 studenti a fuggire nella boscaglia circostante. Molti di loro non sono riusciti a mettersi in salvo. Con diversi aspetti da chiarire e confermare, l’attacco è stato inizialmente attribuito a gruppi armati di banditi locali attivi in una regione dove i rapimenti a scopo di estorsione sono comuni. L’esercito aveva anche detto di aver individuato il nascondiglio del gruppo annunciando un’operazione militare per salvare gli alunni. Il Governatore dello stato, Aminu Bello Masari, aveva anche parlato di trattative in corso con i rapitori per il rilascio, poi smentito dai miliziani jihadisti. Poi, il 17 dicembre, il rilascio di circa 300 studenti.
Questo fatto segna un importante punto di svolta nell’avanzata degli estremisti in una nuova area di influenza. E conferma il rinvigorimento del gruppo terroristico sunnita che continua anche oltre confine, come testimonia l’attacco a un villaggio quasi simultaneo avvenuto il 12 dicembre in Niger nella regione frontaliera di Diffa dove sono stati uccisi 27 civili.
Appena una settimana prima le immagini dei funerali di decine di agricoltori nigeriani uccisi in un raid terroristico ad opera dei jihadisti di Boko haram lo scorso 28 novembre nel villaggio di Koshebe, non lontano dalla martoriata capitale dello stato del Borno, Maiduguri, hanno fatto il giro del mondo. Canti, preghiere e lacrime, in un’immensa folla che trasporta i corpi avvolti in teli bianchi su delle lettighe di legno per dargli sepoltura in un’ampia spianata adibita a fossa comune nel vicino villaggio di Zabarmari.
Il bilancio delle vittime dell’ennesima strage avvenuta nel nordest della Nigeria è di oltre 100 morti, diversi dei quali decapitati, e qualche decina di dispersi tra cui ci sarebbero anche una dozzina di donne, probabilmente rapite. È sicuramente uno degli attacchi più sanguinosi mai registrati ai danni di civili da quando il gruppo estremista islamico nigeriano ha iniziato la sua lotta armata oltre dieci anni fa.
Da tempo i contadini delle risaie della zona avevano stipulato un accordo con i miliziani di Boko haram: avrebbero potuto coltivare in pace i loro campi, purché non denunciassero la presenza e l’identità degli estremisti all’esercito nigeriano. Un fenomeno comune e inevitabile se si vuole sopravvivere in queste zone ad alta insicurezza alimentare. Qualche settimana fa, però, quel patto è stato rotto.
All’inizio non era chiaro se la responsabilità dell’attacco fosse da attribuire a Boko haram, il gruppo fedele al vecchio leader Abubakar Shekau o allo Stato Islamico nella Provincia dell’Africa occidentale (Iswap), la fazione riconosciuta Daesh, ormai anch’essa attiva nell’area con attacchi continui, l’ultimo dei quali il 9 dicembre ai danni dell’esercito. Tre giorni dopo la carneficina, proprio il gruppo di Shekau ha annunciato in un video di aver ucciso i contadini come atto di rappresaglia per aver consegnato dei militanti terroristi alle autorità.
“Siamo accusati di essere collaboratori sia dalle forze di sicurezza che dagli estremisti, quando tutto quello che abbiamo fatto è stato cercare la pace”, ha detto un anziano del villaggio di fronte alle telecamere delle emittenti nigeriane. “Cosa dobbiamo fare per poter stare al sicuro?”.
Cosa dobbiamo fare per stare al sicuro?
Una domanda che non trova ancora risposta dopo anni di promesse da parte dei governi che si sono succeduti ad Abuja. Prima l’ex-presidente Goodluck Jonathan e poi Muhammadu Buhari, ex-generale in carica dal 2015, pur avendo cantato più volte vittoria, non hanno saputo sedare questo male che fonda le sue radici nel tempo in un contesto fertile per l’estremismo. Vale a dire una regione marginalizzata, povera e nella quale la corruzione endemica soffoca ogni sviluppo e le istituzioni sono deboli e latitanti. Caratteristiche che hanno aumentato il senso di frustrazione tra i giovani meno istruiti degli stati settentrionali musulmani e rafforzato il divario identitario con il sud cristiano più ricco e sviluppato grazie al petrolio.
Cos’è Boko haram
Da quando Boko haram ha iniziato la sua attività armata nel 2009, ha causato oltre 30mila vittime e più di 2,4 milioni di sfollati nella regione del Bacino del lago Ciad sconfinando anche nei vicini Camerun, Ciad e Niger, con conseguenti gravi crisi umanitarie e migrazioni interne che a loro volta hanno acuito conflitti intercomunitari tra agricoltori e pastori nomadi destabilizzando l’area.
Il nome con cui è conosciuto il gruppo Boko haram, significa “l’educazione occidentale è peccato”. È formato da boko, ovvero “libro” in pidgin english, e haram, “vietato” in arabo. In realtà Jama’atu Ahlul Sunna Lidda’awati Wal Jihad, “Gruppo della Gente della Sunna per la propaganda religiosa e il Jihād”, è il suo vero appellativo e lo scopo del movimento armato è proprio bandire la cultura occidentale, dall’istruzione al comportamento, per favorire il radicamento dei precetti puri dell’Islam.
Quando venne fondato nel 2002 dal predicatore Mohammed Yusuf, era una setta estremista che voleva eliminare corruzione e ingiustizia, attribuite appunto alle influenze occidentali, e imporre la Shari’a.
Da quando Boko haram ha iniziato la sua attività armata nel 2009, ha causato oltre 30mila vittime e più di 2,4 milioni di sfollati
Nel 2009, dopo che una rivolta organizzata dal gruppo viene sedata violentemente dal governo federale con centinaia di morti tra gli adepti, Yusuf viene arrestato e giustiziato. Il gruppo passa nelle mani di Shekau e si trasforma in un’organizzazione jihadista sunnita di orientamento salafita molto violenta. Così comincia l’inferno che conosciamo: una serie infinita di attacchi a scuole, ospedali, basi militari, palazzi governativi, chiese e organizzazioni internazionali, per non parlare dei rapimenti di massa, delle stragi nei villaggi (il più grave a Baga nel 2015 con quasi duemila morti) e degli attacchi dinamitardi nei luoghi pubblici nei quali verranno usati come kamikaze anche donne rapite e minori divenuti bambini soldato.
Nel 2015 il gruppo ha proclamato l’adesione allo Stato Islamico del califfo Abu Bakr al Baghdadi, il quale lo ha riconosciuto ufficialmente come “ampliamento del suo Califfato”. Nel 2016 all’interno del gruppo avviene una scissione. Lo Stato Islamico indica Abu Musab al-Barnawi, già portavoce di Boko haram e figlio del fondatore Yusuf, come nuovo leader del suo governatorato in Africa estromettendo così Shekau (considerato troppo volubile e violento), il quale poco dopo smentisce autoproclamandosi imam di Boko haram. È così che ci si trova di fronte ai due principali gruppi attivi oggi: Boko haram del leader storico e il già citato Iswap di al-Barnawi (che sarebbe stato destituito nel 2019).
Perché l’avanzata terroristica di Boko haram non si ferma
Mentre sono noti gli aspetti socio-economici critici della regioni settentrionali nigeriane che hanno favorito la nascita del movimento, sulle origini religiose il dibattito è ancora aperto. Alcuni studiosi collegano l’ideologia del fondatore Yusuf a un gruppo attivo negli anni ‘80 nello Stato di Kano chiamato “Yan Tatsine” e guidato dal predicatore camerunese “Maitatsine”. Anche loro predicavano contro le autorità e la cultura occidentale.
Più probabile però la correlazione con l’avvento negli anni ’70-’80 del pensiero musulmano salafita, più integralista, in una regione dove storicamente la principale scuola islamica era sempre stata il sufismo, corrente più moderata e mistica dell’Islam. Dopo l’indipendenza dal Regno Unito questa corrente è arrivata in Nigeria soprattutto grazie al movimento Izala Society. Guarda caso Yusuf si formò in centro islamico fondato da un predicatore Izala a Maiduguri e, probabilmente, è a partire da questa esperienza che il fondatore di Boko Haram si radicalizzò e creò la rete salafita estremista su cui ha forgiato il gruppo terroristico.
Al di là delle origini della setta sunnita e della sua evoluzione, chi di certo si è trovato del tutto impreparato di fronte alla sua ascesa sono stati l’esercito nigeriano e le istituzioni di Abuja, che non avevano né i mezzi necessari né un piano d’azione efficace per affrontare l’insurrezione. Permisero al gruppo di occupare addirittura intere fette di territorio nel Borno State imponendo la Shari’a, oltre a farlo espandere oltre frontiera in Camerun, Ciad e Niger.
Nel 2015 dopo l’elezione di Buhari, che aveva promesso di sconfiggere il gruppo in due anni, e la costituzione della Multinational joint task force (Mnjtf), la forza d’intervento congiunta composta da militari di Nigeria, Ciad, Camerun, Niger e Benin, l’insorgenza di Boko Haram è stata contenuta, ma mai davvero sconfitta. Un rapporto dell’International Crisis Group dello scorso luglio conferma che le campagne militari portate avanti tra il 2017 e il 2019 hanno portato a liberare i civili e consentito l’arrivo di aiuti umanitari per la popolazione stremata. Tuttavia, i miliziani delle due fazioni di Boko Haram sono divisi in cellule difficili da individuare, ben organizzate e radicate nel territorio, come dimostra il massacro di Koshebe. Per questo è necessario un maggior coordinamento d’intelligence tra i vari stati per scovare i combattenti e bloccare le loro reti di approvvigionamento fatte di racket, furti e traffici d’armi e materie prime.
La carneficina di novembre è stata causata anche dalla molto criticata strategia dei “supercamps” attuata dall’esercito nigeriano, per cui i soldati nei villaggi sono stati spostati in grandi basi più militarizzate per evitare perdite e accrescere la resistenza agli attacchi, lasciando però intere regioni rurali alla mercé dei terroristi.
Appare comunque evidente che la soluzione non debba essere solo militare. L’inefficienza nella lotta agli estremisti e le reiterate violazioni commesse dalle forze di sicurezza ai danni dei civili, con evidenti prove di detenzioni arbitrarie e torture anche a danni di minori, ha incrinato la fiducia delle popolazione nello Stato nigeriano che ora va ristabilita.
Per questo bisogna passare anche da un intervento umanitario e sociale per fornire servizi pubblici alla popolazione e migliorare le condizioni di vita nelle aree colpite, con uno sguardo particolare agli anziani, “collante delle comunità” che si disgregano, come ha ricordato pochi giorni fa Amnesty International, altrimenti i terroristi si sostituiranno alle istituzioni assenti come stanno già facendo.
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