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Borena è il viaggio nell’omonima regione etiope dove agricoltori e allevatori locali sono diventati profughi interni. Un podcast di Valerio Nicolosi prodotto da LifeGate e Cesvi.
La siccità che ha devastato il Corno d’Africa e che ha lasciato decine di milioni di persone alle prese con una grave insicurezza alimentare è strettamente legata agli effetti dei cambiamenti climatici causati dall’attività antropica. Dall’ottobre 2020 questa parte dell’Africa orientale, una delle regioni più impoverite del mondo, è stata colpita dalla peggiore siccità degli ultimi 40 anni. Qui una è mancata la stagione delle piogge per cinque stagioni consecutive.
Etiopia, Somalia e Kenya sono i paesi maggiormente interessati da questa emergenza. Secondo i dati della Banca mondiale sono più di 36 milioni le persone nell’area che si trovano in stato di grave insicurezza alimentare a causa della siccità. Secondo l’Unicef più di 7 milioni di bambini sotto i 5 anni vivono in uno stato di malnutrizione acuta e molti sono già morti a causa di questa situazione. Ed è proprio sulla mancanza di piogge nelle regioni meridionali dell’Etiopia che è dedicato il nuovo podcast di Valerio Nicolosi “Borena, la terra senza pioggia” prodotto da LifeGate e Cesvi, un’organizzazione che opera in tutto il mondo per supportare le popolazioni più vulnerabili nella promozione dei diritti umani, nel raggiungimento delle loro aspirazioni, per lo sviluppo sostenibile.
Dopo anni di siccità, la breve stagione delle piogge avvenuta tra ottobre a dicembre 2023 ha portato a violente alluvioni, in particolare a novembre, che hanno provocato gravi inondazioni nel sud dell’Etiopia, nel Kenya orientale e in molte regioni della Somalia meridionale e centrale. Lo stesso scenario si sta verificando in queste settimane. Tutto questo ha portato a un aumento delle persone costrette a lasciare le proprie case.
Se da un lato l’Etiopia è stata colpita dalle alluvioni, in alcune sue aree la pioggia non arriva ormai da più di sei anni, come nella regione di Borena, nel sud del paese al confine con il Kenya. In questa regione sono più di otto anni che mancano le piogge e le popolazioni, composte principalmente da agricoltori e allevatori, sono state costrette a lasciare le loro case per poter trovare dell’acqua.
Il viaggio di Valerio Nicolosi in Etiopia è dedicato a questa regione e il suo racconto parte dal campo profughi di Dubuluk, non un classico campo che accoglie rifugiati in fuga da conflitti armati, ma veri e propri migranti climatici. “C’è una guerra in corso, contro le popolazioni e causata dai cambiamenti climatici”, commenta Nicolosi mentre ci racconta di questo viaggio.
Questo podcast lo hai realizzato in seguito a un viaggio in Etiopia con Cesvi, ci racconti ciò che hai visto?
Quello che ho trovato in Etiopia sembra il nostro futuro prossimo, perché anche il Mediterraneo è un hotspot climatico. Un futuro sempre più distopico, ma sempre più reale. Nella regione di Borena la siccità dura da sei anni, un tempo lunghissimo. Su un ipotetico futuro arido, ambientato a Roma, Paolo Virzì ci ha fatto un film, “Siccità”, in cui è rappresentata una società implosa, come durante la pandemia, dopo soli tre anni senza piogge.
In Etiopia, gli anni senza pioggia sono sei. Però ho trovato una popolazione che vuole attivarsi. Nel podcast lo racconto, come anche grazie al progetto di Cesvi queste popolazioni si stanno attivando per affrontare questa crisi, perché prima o poi, si spera, le piogge torneranno e servirà un’infrastruttura per trattenere l’acqua.
In sintesi, quello che ho visto è qualcosa di pazzesco, di inimmaginabile.
L’Etiopia è un paese particolare: da un lato ci sono dighe mastodontiche, dall’altra regioni in cui manca la pioggia per diversi anni di fila. Quanto l’intersezione tra cambiamenti climatici e politiche idriche stanno impattando le popolazioni delle regioni che hai visitato?
Le politiche idriche etiopi sono da un lato faraoniche, come la Grande diga della rinascita etiope (Gerd), con l’idea di poter gestire il flusso del Nilo. Quindi da un lato questa diga mastodontica serve a gestire uno dei più importanti fiumi del mondo, dall’altro, a livello governativo, ci sono pochissimi interventi a livello locale. Il governo ha in qualche modo abbandonato queste comunità, che trovano un po’ di sostegno tramite la cooperazione internazionale.
Il problema vero è che bisognerebbe lavorare sull’emergenza, ma soprattutto sul lungo periodo nella prospettiva contro il cambiamento climatico senza impianti mastodontici, ma con interventi locali. E servono delle pratiche internazionali: da un lato chi emette di più deve ridurre il proprio impatto, dall’altro c’è bisogno di interventi locali che possano migliorare le condizioni di vita delle popolazioni e non grandissime infrastrutture come la Gerd, che creano solo danni ambientali e probabilmente anche future guerre.
Si può, secondo te, oggi, scernere le migrazioni dalla crisi climatica?
Le migrazioni oggi sono strettamente connesse alla crisi climatica. Qui in Italia continuiamo a fare differenza per provare a fare una classifica dei migranti tra chi scappa dalle guerre e chi per motivi economici, ma sempre più spesso i migranti sono migranti climatici. Sono profughi climatici che noi riconosciamo come migranti economici o, a volte, come profughi di guerra perché, se da un lato i cambiamenti climatici ti costringono a spostarti per sopravvivere, altre volte diventa causa di conflitti veri e propri.
Se penso all’Etiopia, e a quello che ho visto, che cosa resta a una persona dopo sei anni di pioggia se non andar via o morire di fame? Inevitabilmente quella migrazione è una migrazione ambientale. Al tempo stesso la crisi climatica sta portando a sempre più guerre, soprattutto conflitti locali che noi nel Nord del mondo non riconosceremmo come tali. Anche in quel caso, chi si sposta non è riconosciuto come profugo di guerra, ma nemmeno come profugo ambientale.
Arriverà il momento in cui dovremmo creare lo status di migrante climatico, quindi di coloro che hanno la necessità di trovare una vita dignitosa, a causa degli effetti del cambiamento climatico che noi, come società occidentale, abbiamo contributo a creare con le nostre emissioni. Non possiamo continuare ad inquinare e chiudere le frontiere a chi scappa da una crisi che abbiamo creato noi.
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