
In un nuovo decreto previsti limiti più stringenti per queste molecole chimiche eterne, ma ancora superiori a quelle indicate dalle agenzie ambientali.
Nell’Amazzonia brasiliana è stato avviato un grande progetto di riforestazione. Resisterà alla vittoria alle elezioni dell’estrema destra di Jair Bolsonaro?
La foresta amazzonica, l’ultimo grande polmone del pianeta, è sempre più malandata, spogliata e violata un pezzetto alla volta. Nel 2016 la deforestazione ha raggiunto livelli record, una ricerca ha rivelato che tra agosto 2015 e luglio 2016 sono stati distrutti in Brasile quasi 8mila chilometri quadrati di boschi, rasi al suolo da taglialegna, agricoltori e allevatori.
Per cercare di salvare la foresta pluviale tropicale più grande del mondo, e noi stessi, la ong statunitense Conservation International ha annunciato la nascita di un nuovo progetto che, entro i prossimi sei anni, prevede la piantumazione di 73 milioni di alberi, diventando così la più grande opera di riforestazione tropicale della storia.
L’iniziativa, che sarà guidata da Conservation International e che vede la partecipazione del ministero brasiliano dell’Ambiente, del Global environment facility (Gef), della Banca mondiale, del Fondo brasiliano per la biodiversità (Funbio) e del festival Rock in Rio, mira a far tornare verde il cosiddetto “arco della deforestazione”, ovvero l’area in cui si verifica quasi la metà della deforestazione tropicale del mondo.
Questa vasta zona, che attraversa gli stati brasiliani di Amazonas, Acre, Pará e Rondonia è stata oggetto di un violento disboscamento e migliaia di ettari di foresta pluviale sono stati abbattuti per fare posto a pascoli per il bestiame. La prima fase del progetto prevede di ripristinare 70mila ettari (una superficie equivalente a circa 30mila campi da calcio) di foresta.
“Se il mondo vuole raggiungere l’obiettivo di mantenere la temperatura globale ben al di sotto dei due gradi centigradi previsto dall’Accordo di Parigi, allora la protezione delle foreste tropicali deve essere imprescindibile”, ha dichiarato M. Sanjayan, amministratore delegato di Conservation International. Secondo il quale “non contano solo gli alberi, ma occorre verificare anche che tipo di alberi: se si ha davvero intenzione di assorbire la maggiore quantità di CO2 le foreste tropicali sono le più efficienti”.
Si stima che se cessasse la deforestazione le foreste sarebbero in grado di assorbire il 37 per cento delle emissioni annuali di CO2 a livello mondiale, ma i biologi temono che il 20 per cento della foresta amazzonica potrebbe essere disboscato nei prossimi due decenni, in aggiunta al 20 per cento che è stato abbattuto negli ultimi quaranta anni.
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Per questo progetto Conservation International utilizzerà una tecnica di piantumazione nuova ed efficiente, sviluppata in Brasile solo pochi anni fa, chiamata muvuca, parola portoghese utilizzata per descrivere la presenza di molte persone in un piccolo luogo. La muvuca prevede la posa di centinaia di semi di alberi nativi di varie specie in ogni metro quadrato di terreno deforestato, la selezione naturale consentirà poi alle piante più idonee di sopravvivere e prosperare. Uno studio condotto dalla Fao ha rivelato che oltre il 90 per cento delle specie di alberi autoctone piantate utilizzando il metodo muvuca germinano e sono in grado di sopravvivere anche a periodi di siccità lunghi fino a sei mesi.
“Con le tecniche di rimboschimento tradizionali si ottiene mediamente una densità di circa 160 piante per ettaro – ha spiegato Rodrigo Medeiros, vice-presidente di Conservation International Brasile. – Con muvuca il risultato iniziale è di 2.500 specie per ettaro e dopo dieci anni si possono raggiungere 5mila alberi per ettaro. Questo sistema garantisce una maggior copertura arborea ed è meno costoso delle tecniche tradizionali”.
L’intero processo virtuoso di tutela della foresta amazzonica potrebbe però essere messo in discussione dall’elezione a presidente del Brasile di Jair Bolsonaro. Il leader dell’estrema destra della nazione sudamericana, infatti, il 25 ottobre ha dichiarato che il suo paese non seguirà le orme degli Stati Uniti di Donald Trump. E resterà dunque nell’Accordo di Parigi sul clima. Ma a condizione che a Brasilia sia data piena sovranità proprio sulla gestione della foresta. Su questo punto “mi devono dare assicurazioni nero su bianco”, ha affermato il nuovo presidente. Altrimenti, non è escluso un secondo clamoroso addio.
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Nel mirino di Bolsonaro c’è in particolare il progetto “Tripla A”: un ipotetico corridoio ecologico transnazionale che va dalle Ande all’oceano Atlantico all’Amazzonia. Esso prevede la creazione di una vasta zona protetta che potrebbe legare tra loro parchi naturali, riserve indiane e spazi di conservazione della biodiversità. Ma secondo il nuovo presidente, in tal modo “136 milioni di ettari non sarebbero più sotto la nostra giurisdizione”. Per la destra brasiliana, d’altra parte, la foresta è molto più una risorsa economica che un elemento indispensabile per salvare il Pianeta dalla catastrofe climatica.
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