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Brunori Sas. La Terra secondo me
10 anni di carriera e un nuovo album: “Cip!”. Abbiamo incontrato il cantautore calabrese Brunori Sas per parlare di musica, natura e molto altro.
Un percorso sorprendente quello fatto da Dario Brunori, nome d’arte Brunori Sas. Esordire a trent’anni e riuscire ad affermarsi come uno dei punti di riferimento, una sorta di instant classic, del panorama musicale nazionale non è cosa da poco nel nostro paese. D’altra parte l’ottimismo è una delle doti che caratterizzano il cantautore.
A quaranta “suonati” Brunori Sas, chiusi i festeggiamenti per i dieci anni di carriera, torna sulla scena e lo fa dalla porta principale: da vero e proprio big della canzone italiana. “Cip!”, quinto capitolo discografico della sua avventura, prodotto insieme al fido Taketo Gohara, è un disco che forse inconsciamente tiene conto di queste premesse.
È un lavoro più leggero e distaccato (“più in aria”), probabilmente più sereno.
Dario non rinuncia ad osservare e a raccontare il nostro tempo, ma questa volta fa qualche passo indietro, come alla ricerca di una prospettiva più ampia. Lo abbiamo incontrato alla Casa degli artisti, edificio storico per l’arte a Milano che proprio in questi giorni torna a nuova vita, a 110 anni dalla sua nascita.
Come sei arrivato alla Casa degli artisti?
Ho lavorato a gran parte dell’album in giro per l’Italia ma mi mancavano i testi. Stavo cercando un ambiente diverso rispetto al solito e ho trovato in questo posto l’ispirazione necessaria per ultimare il disco. I luoghi, così come le persone, hanno sempre una certa influenza sul mio lavoro ed è successo anche in questo caso.
A proposito di luoghi: tu vivi in un piccolo paesino sulle montagne; che rapporto hai con la natura e quanto ha influenzato la tua scrittura?
“Cip!” è un album particolarmente influenzato dalla natura, dal fatto di vivere a contatto con altri esseri viventi. Pensa che la sera quando torno a casa mi capita spesso di imbattermi in un cinghiale, una volpe… C’è un’intera montagna che vive e respira attorno a me. Se prima guardavo al paese come a una comunità di uomini, oggi lo vedo come parte di qualcosa di più grande.
Possiamo dire che è cambiato il tuo punto di vista?
È come se fosse cambiata la prospettiva, quello che era sfondo oggi è diventato centrale. La vicenda umana non è poi così importante se si dimentica il contesto, il contenitore in cui tutto accade. Ad esempio in “Anche senza di noi” c’è un elenco delle cose che l’uomo può fare ma si parla della possibilità che il Pianeta possa continuare a girare, ad andare avanti anche senza di noi.
Di cosa parla il nuovo album “Cip!”?
Sicuramente ci sono delle tematiche di cui ho già parlato nei lavori precedenti, ma è un po’ più in aria rispetto al disco precedente. C’è un attitudine più spirituale. Ho cercato di mantenere una certa distanza, non un distacco. È come se guardassi alle vicende che racconto facendo un passo indietro: come di fronte a un quadro, quando ti allontani un po’ per ammirarlo nella sua totalità. C’è quel tentativo di dare uno sguardo all’uomo e non agli uomini, unito alla necessità – dopo un disco in cui parlavo di paure – di parlare d’amore, nelle sue declinazioni: prendersi cura degli altri, dei rapporti, della vita, anche della propria.
In una vecchia intervista hai definito la produzione del tuo primo disco ne “hi”, e “lo” ma semplicemente “fi”. Con il tempo c’è stata una naturale evoluzione del tuo suono. Come definiresti questo nuovo album?
Sicuramente si tratta di un disco hi-fi: è stata una scelta. La sfida, dopo un percorso partito in parte per necessità, in parte per scelta poetica dal lo-fi, era quella di far suonare “bene” questo disco, vuoi per la natura delle canzoni, vuoi per la quantità degli strumenti coinvolti. Molte cose belle vengono snobbate perché non hanno un suono adeguato agli “standard”. Io e Taketo volevamo trovare alle canzoni un vestito che potesse essere un incentivo ad ascoltare l’album. Speriamo di esserci riusciti.
Com’è stato partecipare a “Note di viaggio”, il disco tributo a Francesco Guccini?
Non sono un amante dei tributi perché non amo le cover e non sono neanche mai stato bravo a farle. Sono sempre stato dubbioso sulla possibilità di aggiungere un qualcosa, di dare una sfumatura diversa all’opera originale, al lavoro altrui. Il fatto che in questo caso ci fosse una direzione artistica a cura di Mario Pagani, da un lato mi ha un po’ deresponsabilizzato, dall’altro mi ha fatto sentire parte di un progetto corale, non di una semplice raccolta di cover che ognuno ha registrato per conto suo.
Si è parlato tanto, forse addirittura più di questo tributo, del murales di Tvboy e del ruolo della musica, dell’arte in generale come avanguardia per parlare dell’attualità. Vuol dire che si è raggiunto l’obiettivo?
Assolutamente. Credo sia una forma di maturità pensare che quello che fai sia strumentale. Contrariamente ai miei esordi, quando le canzoni erano il fine, oggi sono diventate un mezzo. Uno strumento per veicolare un messaggio, per contribuire a far stare insieme le persone, per creare un rituale, per partecipare a qualcosa di più grande. È ovvio che devi stare attento a fare in modo di non essere strumentalizzato.
Quanto è difficile per un cantautore, dover trovare ogni volta delle parole, scegliere delle storie da raccontare… Sapendo che quello che canti oggi rimane per sempre?
È difficilissimo. Sono molto critico nei confronti di me stesso ma non al punto di inibirmi.
Come diceva Mark Twain: “Preferisco il ridicolo di scrivere poesie al ridicolo di non scriverne affatto”; quindi comunque mi lancio.
Negli ultimi tempi la cosa che mi ha un po’ bloccato era il desiderio di raccontare più un sentire che un pensare. Volevo scrivere qualcosa che fosse funzionale al come e non al cosa, portare l’attenzione non su quello che io penso, ma su quello che io sento.
Ho visto sul tuo profilo Instagram uno scatto che ti ritrae insieme all’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano. Cosa puoi raccontarci?
Ci siamo incontrati in occasione di un’assemblea a Riace: è stato un incontro fugace ma intenso. La sua vicenda mi ha colpito molto. Ho visto un essere umano fragile e forte al tempo stesso, una persona un po’ schiacciata, stretta tra due forze opposte, tra chi gli voleva bene e chi no.
Mi ha fatto molta tenerezza.
Lasciando perdere le implicazioni politiche ritengo Lucano un personaggio che lotta – come faccio anche io – per una visione poetica del mondo.
Prima dell’estate hai festeggiato i dieci anni di Volume 1. Com’è cambiata la tua vita nell’ultimo decennio?
È cambiata completamente: dieci anni fa, quando ho iniziato a scrivere canzoni, non avevo mai neanche cantato in pubblico. Cominciare a trentadue anni mi ha aiutato a vivere tutto quello che è successo con grande pazienza e serenità.
Cosa pensi del pop italiano e di questo exploit della musica italiana, l’hai visto arrivare, prendere piede, trasformarsi. Sei quasi uno zio per questa nuova generazione di artisti.
Come zio non posso che parlare bene dei miei nipotini. Sono convinto che ci sia un movimento interessante, al di là delle singole definizioni. Qualcosa che prima era periferico e ora sta diventando centrale. Manifestazioni artistiche che non erano presenti prima. Mi da l’idea del cambiamento, anche quando non incontrano il mio gusto. Ovvio che si sta creando un’inflazione, una moda. Ma credo che scrivere “alla maniera di” alla lunga non paghi. La fama, il successo e la notorietà devono essere una conseguenza, mai un fine. Ecco questa affermazione mi fa sentire un po’ zio. Uno zio saggio.
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