Un ritratto dei business angel italiani, tra spirito imprenditoriale e attenzione alla sostenibilità

In Italia ci sono poco più di 1.200 business angel, imprenditori esperti che mettono le loro risorse a disposizione delle imprese che stanno nascendo. Abbiamo intervistato una di loro, Anna Maria Siccardi.

Se le giovani imprese hanno l’opportunità di emergere spesso è anche merito dei business angel, cioè di quegli imprenditori più esperti che si innamorano della loro idea tanto da investire in prima persona per supportarla. In Italia ne esistono poco più di 1.200, sono soprattutto uomini (86 per cento) e vivono nelle regioni del nord (72 per cento), prima fra tutte la Lombardia. Di sicuro nel comporre il loro portafoglio si pongono degli obiettivi minimi di rendimento annuale ben precisi, ma c’è una novità: sono anche disposti ad abbassare leggermente tale aspettativa, pur di sostenere delle realtà capaci di avere un significativo impatto sociale.

Troviamo questi e altri dati nell’edizione 2021 del Report sull’impatto dei business angel italiani redatto dal Social innovation monitor (Sim), un team di ricercatori e professori che si occupano di innovazione e imprenditorialità e hanno la loro base operativa al Politecnico di Torino. Chi può commentare questi numeri meglio di un business angel? È per questo che abbiamo contattato Anna Maria Siccardi, imprenditrice che ha partecipato in prima persona alla nascita e allo sviluppo di importanti realtà digitali ed è co-fondatrice della piattaforma di crowdfunding e personal fundraising Rete del dono.

Come si diventa business angel?
Di solito il business angel è un imprenditore che, raggiunta una certa solidità economica familiare o avendo un’azienda che permette di creare sinergie, fa leva sul proprio patrimonio (o su quello dell’azienda, se ne è proprietario) per investire in iniziative imprenditoriali ideate da altre persone. Può essere anche un professionista, per esempio un commercialista o un legale di livello che segue tante aziende, con un approccio simile a quello di una società di consulenza.

Da una parte per diversificare i propri investimenti, dall’altra per il piacere di dare una mano agli imprenditori più giovani, questa figura destina le sue risorse al supporto a giovani imprese nascenti. Parlo di “risorse” in senso generale perché un vero business angel non mette a disposizione solo quelle economiche; anzi, a volte sono marginali. Sono soprattutto la sua esperienza e il suo capitale sociale a permettere ai giovani imprenditori di conoscere potenziali clienti, partner e fornitori. Per riassumere, quindi, il business angel offre esperienza, capitale sociale e capitale economico per aiutare un altro imprenditore a far partire la propria azienda.

In un certo senso, questa figura è sempre esistita; la differenza sta nel fatto che ora esiste un termine per delinearla ed esistono dei network. In un Paese come il nostro, fino a 20-25 anni fa non esistevano gli acceleratori o gli incubatori. Chi ha creato realtà importanti l’ha fatto tramite il patrimonio di famiglia o perché ha incontrato sulla sua strada un mentor che l’ha preso sotto la sua ala. Tanti imprenditori che ora hanno più di 45-50 anni ne sono consapevoli e vogliono restituire a qualcun altro ciò che loro stessi hanno ricevuto.

Poi c’è il tema della diversificazione. Di solito l’imprenditore è propenso al rischio e quindi sono più disposto, rispetto ad altri soggetti, a rischiare una parte dei propri risparmi per aiutare delle giovani imprese.

Lei in particolare da quanto è una business angel? Questa è la sua attività predominante o è parallela al suo lavoro “ufficiale”?
Saranno almeno cinque o sei anni che faccio la business angel in modo strutturato. È un’attività parallela al mio lavoro ufficiale, magari diventerà dominante in futuro.

Dal report di Sim emerge che soltanto il 14 per cento dei business angel italiani è donna. Secondo lei qual è il motivo?
Secondo me i motivi sono tanti. Innanzitutto, le imprenditrici donne sono meno rispetto agli uomini. Dalla mia percezione personale, le donne che fanno impresa sono meno propense al rischio: la loro priorità è consolidare ciò che già hanno, difficilmente portano avanti attività parallele. Questa, ripeto, è la mia percezione. Certo, anche il fatto che i network di business angel siano ambienti prettamente maschili non aiuta. Per cambiare il contesto forse bisognerebbe forzare un po’ la mano.

C’è un altro tema annoso, in Italia e non solo: le donne in età lavorativa hanno meno tempo libero perché il lavoro di cura ricade sulle loro spalle. Questo lo dice l’Istat e vale in generale, non soltanto per chi ha figli. E, fatta eccezione per i pensionati, i business angel di solito svolgono quest’attività al di fuori dell’orario lavorativo ordinario; capita per esempio di fissare le riunioni nel tardo pomeriggio o di sera, momenti in cui le donne fanno più fatica a liberarsi.

donne imprenditrici e business angel
Tuttora le donne imprenditrici e business angel in Italia sono una minoranza © Cowomen/Unsplash

Dal report di Sim scopriamo anche che ci sono investitori disposti a rinunciare a investimenti con grandi profitti per privilegiarne altri a più basso rendimento ma con alto impatto sociale. Come possiamo interpretare questo dato?
Mi ritrovo in questo dato e credo che anche in questo caso ci sia più di un motivo. Intanto le generazioni di imprenditori più giovani sono più sensibili al tema della sostenibilità perché sono cresciute con una mentalità diversa. Vent’anni fa, l’opinione comune era che non fossero le imprese a doversi fare carico delle sfide della sostenibilità. Oggi invece un po’ tutti hanno acquisito la consapevolezza per cui fare impresa significhi anche tener conto dell’impatto ambientale e sociale. Questo ormai è entrato nella cultura imprenditoriale, soprattutto fra i più giovani. Si inizia a capire anche che disinteressarsi della sostenibilità non è lungimirante, perché gli eventuali impatti negativi rischiano di creare grossi problemi in futuro.

Quali sono i metodi con cui un business angel valuta l’impatto sociale di un’impresa? La normativa obbliga solo le grandi imprese a redigere un report di sostenibilità, non certo le startup
Questo è un tema grosso, e lo dimostra il fatto che si stiano moltiplicando i centri studi che elaborano metriche d’impatto. Che io sappia, l’unico standard internazionale è quello delle B Corp e consiste in un self assessment standardizzato, valido in tutto il mondo. Il questionario restituisce un punteggio che può essere messo a confronto con quello di qualsiasi altra azienda.

C’è anche da dire che, in questa fase, ci si focalizza quasi esclusivamente sulla sostenibilità ambientale dove è più facile misurare e monitorare i dati oggettivi. In realtà anche la sostenibilità sociale, cioè il modo in cui un’azienda impatta sul suo territorio, è un tema enorme. In questo caso trovare delle metriche è ancora più difficile, tanto più perché vanno misurate su un arco di tempo molto lungo.

Un conto è l’azienda che realizza un prodotto o un servizio esplicitamente orientato a ridurre le emissioni o ad aumentare l’inclusione sociale: in quel caso, è palese che ci sarà un impatto positivo in termini di sostenibilità. Quando invece si ha a che fare con un’azienda tradizionale, questa valutazione è più difficile. C’è ancora molto da fare per sviluppare metriche oggettive e condivisibili.

Quali sono secondo lei i settori su cui puntare nei prossimi anni?
Io ho un background scientifico perché sono laureata in Fisica e mi sono sempre occupata di digitale nelle sue varie accezioni. Mentre negli ultimi vent’anni il protagonista è stato il software, credo che nel prossimo decennio ci si focalizzerà sempre di più sull’hardware. È difficile che le piattaforme web e la blockchain possano evolversi ancora in modo significativo se non faremo passi avanti per miniaturizzare l’hardware, ridurre i consumi di energia e aumentarne l’efficienza.

 

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