Il clima che cambia sta delineando una nuova geografia del cibo con l’agricoltura chiamata a rispondere alle sfide ambientali e di sicurezza alimentare.
Cacao amaro. La voce dei coltivatori della Costa d’Avorio, tra crisi climatica e distorsioni del mercato globale
In Costa d’Avorio, i coltivatori di cacao vivono una grave crisi. Sottopagati e senza tutele, sono costretti a usare pesticidi per mantenere la produzione.
È mattina presto ai margini di un villaggio a nord di Agboville, nella regione di Agnéby-Tiassa nel sud della Costa d’Avorio. Assi Hervé, si addentra nel verde della foresta con sulle spalle uno zaino e un machete per farsi largo tra le fronde. Il 46enne sta andando a lavorare nella sua coltivazione di cacao.
Si sposta lentamente e metodicamente da un albero all’altro, osservando scrupolosamente tutte le cabosse verdi e giallastre in maturazione sui tronchi piene di preziose fave. “Il cacaotier è una pianta molto delicata. Va controllata ogni giorno. Le cabosse diventano mature all’incirca ogni tre mesi e allora possiamo raccoglierle, mettere le fave a fermentare per sette giorni e poi farle essiccare al sole”, spiega Assi, che ha iniziato a coltivare cacao da bambino assieme al padre. “Che io ricordi, non mi viene in mente un periodo cosi nero come quello che stiamo vivendo”, racconta il coltivatore riferendosi alle raccolte particolarmente negative degli ultimi anni. “Le piante hanno bisogno di un perfetto equilibrio tra pioggia e calore per rendere bene, ma tutto si è sballato. Inoltre molte si sono ammalate e allora non c’è stato più nulla da fare”.
I cambiamenti climatici si sommano alle problematiche del “sistema cacao”
La Costa d’Avorio e il Ghana, dove si produce oltre il 70 per cento dei chicchi di cacao commercializzati nel mondo, nell’ultimo anno sono state colpite dal El Niño, i cui effetti sono diventati ancora più distruttivi a causa della crisi climatica globale. Piogge improvvise, troppo intense e in periodi sbagliati sono state seguite da temperature troppo elevate. Ad aggravare la situazione si è diffuso il virus swollen shoot e il fungo black pod che hanno intaccato ulteriormente le cabosse.
La conseguenza si è materializzata in una serie di raccolte catastrofiche che hanno messo in crisi il “sistema cacao” e mandato alle stelle il prezzo dei chicchi sui mercati internazionali dove i broker non hanno esitato a speculare. Si prevede che per fine raccolta 2023/24 mancherà all’appello più di un quarto della produzione. Dei sei ettari di terra che il padre gli ha lasciato, attualmente Assi ne mette a coltivazione la metà. “Amo il cacao, ma ho dovuto fare questa scelta perché il prezzo a cui viene pagato non corrisponde più alla fatica necessaria per questa coltivazione”. Il cacao è una monocultura che non è stata industrializzata pur essendo destinata completamente al mercato internazionale. Gli agricoltori con piccoli appezzamenti producono, totalmente a mano, oltre la metà della raccolta mondiale. “Ci vogliono tanti braccianti e ci sono tante spese, ma queste piante non producono più come prima. Un tempo si ragionava in termini di tonnellate, oggi il rendimento si è dimezzato e ragioniamo in termini di centinaia di chili”, racconta Assi.
Con un’esperienza di oltre 30 anni, l’agricoltore sta provando a far riposare l’altra metà del suo appezzamento nella speranza che torni fertile. Tuttavia producendo a metà del potenziale di un tempo e con diversi figli a carico, non riesce far tornare i conti e con la sua famiglia ha dovuto iniziare altre attività come l’allevamento di polli e piccoli commerci. Malgrado traders e multinazionali del cacao gestiscano un mercato mondiale dal valore di miliardi di dollari, con profitti enormi, la maggior parte dei coltivatori dell’Africa occidentale continua a riceverne solo una piccola fetta e vive al di sotto della soglia di povertà a causa di un sistema profondamente diseguale che sta mostrando segni di insostenibilità.
In Costa d’Avorio, coltivare cacao non è più conveniente e si passa ad altre colture
Come molti altri agricoltori ivoriani, Assi sta infatti pensando di prendere decisioni più radicali come quella di sostituire il cacao con altre colture. “Tanti conoscenti hanno iniziato la palma da olio o il caoutchouc. Per alcuni sono più produttive le banane e in zona c’è chi si è messo in società per fare itticoltura” ammette interessato. Il recente raddoppio del prezzo minimo garantito ai produttori deciso dal governo ivoriano tramite l’agenzia CCC (Conseil Café Cacao) su pressione delle cooperative, non sembra essere sufficiente. Un sacco da un chilo verrà pagato 1.500 cfa (2,30 €), ma il costo della vita è aumentato in Costa d’Avorio dopo il Covid 19 e si è entrati in un circolo vizioso per cui la resa è ormai troppo bassa per recuperare la perdita. Anni di prezzi bassi pagati ai produttori hanno provocato il sovra-sfruttamento dei terreni, incentivato anche della domanda sempre più crescente di cioccolato a basso costo (usato per i prodotti industriali di massa e non per la degustazione). Sono stati così abbandonati la cura e il rinnovamento delle piantagioni che dopo un certo periodo di tempo andrebbero rimpiazzate.
Sempre più pesticidi e fertilizzati sul cacao. Anche vietati
Mentre parla, Assi viene raggiunto da altri giovani braccianti con cui inizia a preparare un vaporizzatore per spargere dei prodotti chimici sulle cabosse. Estraggono delle boccette di un fungicida dall’etichetta illeggibile e ne mescolano qualche cucchiaio a una certa quantità d’acqua nel serbatoio. Poi un ragazzo inizia a spruzzare il prodotto “Se si sta attenti non è necessario ripararsi, perché non è forte come molti altri. In quel caso bisogna lasciare la coltivazione a riposo qualche giorno per sicurezza”, spiega Assi. Non sono rari i casi di intossicazione tra gli agricoltori e le loro famiglie nei villaggi ivoriani.
L’agricoltore racconta di aver sempre usato prodotti fitosanitari come pesticidi e fertilizzanti ma oggi, per mantenere il rendimento dei cacaotier sufficiente a un guadagno proficuo, l’utilizzo di prodotti fitosanitari è aumentato vertiginosamente. Oltre all’uso intensivo di fertilizzanti che sta erodendo i suoli, diversi studi hanno dimostrato una diffusione allarmante di pesticidi, fungicidi e diserbanti chimici nella coltura del cacao in Africa Occidentale. In Costa d’Avorio e Ghana il 77 per cento delle famiglie li ha sempre impiegati, ma il loro utilizzo è aumentato di 12 volte negli ultimi 20 anni.
Assi afferma che gli è capitato di avere irritazioni cutanee e problemi respiratori. “Sappiamo che è dannoso e proviamo a proteggerci il più possibile. Quando si passano ore a far questo, capita di tornare a casa con tosse e mal di testa”. La pericolosità è incrementata dal fatto che molti agricoltori non sono sensibilizzati sul corretto utilizzo dei prodotti chimici molto tossici e non utilizzano attrezzature adatte. Inoltre molti di questi prodotti in commercio, di origine cinese, indiana o nigeriana, sono trafficati illegalmente e venduti a un prezzo più basso perché scaduti o non approvati dalle autorità. Per molti ricercatori e medici rappresenta un problema di salute pubblica e ambientale.
Come denunciato da Public Eye, tra questi pesticidi, inoltre, ci sono sostanze vietate in Europa per la loro tossicità ma che, paradossalmente, vengono prodotte ed esportate dagli stessi paesi europei che le hanno vietate, verso i paesi produttori di alimenti per l’industria alimentare mondiale. Tra questi compare la Costa d’Avorio. Atti discutibili e con un effetto boomerang in contrasto con la strategia Farm to Fork dell’Ue.
Nel Paese, le cooperative di coltivatori hanno sempre avuto un ruolo importante nell’organizzazione della filiera e nel peso sindacale: dalla raccolta fino al trasporto verso il porto di San Pedro o di Abidjan dove le società esportatrici acquistano. La loro presenza ha permesso ad autorità e ong di intervenire con aiuti e iniziative collettive di sensibilizzazione.
“Siamo registrati dalle autorità. Il CCC ci fornisce sementi e anche prodotti chimici distribuendo indicazioni sul loro utilizzo, ma la gente spesso non sa leggere”. Agnara Aboud è il presidente della “Cavra Coop. Ca”, che riunisce più di 100 agricoltori della zona di Agboville e lavora nel cacao da oltre 40 anni. Afferma di essere contrario all’utilizzo dei prodotti chimici perché gli hanno dato problemi di salute e portato via un cugino, morto di intossicazione una decina di anni fa, ma di non avere alternative. “Da cinque anni sono iniziati a circolare prodotti bio alternativi nei negozi ma costano molto di più dei chimici”, afferma facendo notare la differenza di prezzo tra un prodotto bio e il suo equivalente chimico in un negozio della città. Il primo costa 20mila CFA (30,50 €), mentre il secondo 5mila CFA (7,50 €). “Abbiamo problemi a mangiare, come possiamo pensare alla sostanza che mettiamo sull’albero?”.
Oggi, spiega Agnara, le cooperative sono sempre più in rotta con le autorità accusate di trattenere una grossa fetta dei guadagni e distribuire premi solo a chi fa tracciare il suo cacao con la “Carte du producteur” (introdotta nel 2023) e dimostra di coltivare bio. Per l’agricoltore lo Stato fa troppo poco: “Ci hanno abbandonati. Com’è possibile che di fronte a questa crisi non si prevedano sovvenzioni per farci sopravvivere? Ecco cosa faremo ora: poiché il governo ci ignora e che anche voi europei non comprate a un buon prezzo, taglieremo.
Voi non create posti di lavoro qui e noi non mangiamo cioccolato perché non possiamo certo permetterci di comprare barrette e dolciumi come voi. Quindi taglieremo tutto”.
La testimonianza di chi fa biologico. E vince
A circa 40 km a sud, nella periferia di Azaguié, Ambroise N’Koh, 69 anni, sta impartendo indicazioni ad alcuni suoi lavoratori intenti a pesare dei chicchi di cacao che hanno concluso la fermentazione. Ambroise è un coltivatore diventato famoso perché nel 2019 ha ricevuto il premio “International Cocoa Awards” come miglior coltivatore al mondo al Salone del cioccolato di Parigi grazie alla sua produzione completamente biologica. Ha studiato finanza e nella prima parte della sua vita ha lavorato in marina e nell’aviazione nella capitale economica ivoriana Abidjan. Ha iniziato a concentrarsi sul cacao quando suo padre gli ha lasciato in eredità delle piantagioni. “Dopo qualche anno ho iniziato a soffrire di seri problemi di salute causati dai prodotti chimici che utilizzavo in grande quantità. Ho scoperto di avere allergie respiratorie e cutanee dovute a molte di quelle sostanze. Così ho iniziato a studiare metodi alternativi”, racconta Ambroise.
Il coltivatore spiega di aver passato anni a studiare e recuperare tecniche native e naturali per combattere le malattie che colpiscono il cacao e i parassiti. “Si possono produrre fertilizzanti con il biocompost e insetticidi con delle piante. Ho messo delle ricette su internet accessibili a tutti. Ho l’abitudine di chiamarla l’agricoltura della nonna”. Una tecnica per combattere i parassiti prevede l’utilizzo di formicai che vengono “applicati” per un certo periodo sulle piante e le cui formiche si nutrono dei parassiti che attaccano le cabosse.
“Solo continuando a testare possiamo migliorare”. Ambroise ospita periodicamente studenti e ricercatori ivoriani e stranieri per fare dei test nella sua piantagione ed è impegnato con autorità e ong nella promozione e sensibilizzazione sui prodotti bio tra le cooperative.
Nonostante il suo impegno dimostri che esistono alternative, resta consapevole che al momento gli sforzi per trasformare la filiera sono insufficienti: “Con la crisi in corso i coltivatori si sono disamorati di una coltivazione molto dura e delicata quanto improduttiva, allora è difficile spingerli a cambiare”, afferma pessimista. E conclude: “Ci vogliono grandi investimenti per fare i cambiamenti che ci chiedete per migliorare, dal bio alla certificazione di non deforestazione. Ma se voi non vi mostrate ragionevoli e intendete pagare sempre lo stesso prezzo, l’agricoltore resterà nella miseria”.
Il settore del cacao rappresenta da sempre un grande potenziale per i Paesi produttori, come conferma l’esperienza di Ambroise N’Koh. Tuttavia resta inespresso per via del “sistema cacao” ormai cristallizzato che ormai sembra degenerare in un ciclo autodistruttore della produzione se non si applicano riforme di sostenibilità. Le grandi aziende dell’industria non vogliono tagliare i profitti, spesso con la complicità dell’élite economico-politiche dei governi locali, e i consumatori non vogliono pagare di più per un prodotto più sano e socialmente equo.
Per molti analisti questa crisi è necessaria e potrebbe finalmente costringere a dei grandi cambiamenti. Se ci sarà un aumento dei prezzi delle barrette nei supermercati, sicuramente diminuirà un po’ la domanda che l’ambiente e i coltivatori non possono più tollerare.
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