La Cop16 sulla biodiversità si conclude con pochi passi avanti. Cosa resta, al di là della speranza?
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Secondo gli ambientalisti, la crisi politica in Sudan sta favorendo l’arrivo di cacciatori provenienti dall’estero. Mettendo a rischio la fauna locale.
In molti paesi africani esiste l’opportunità di prendere parte a battute di caccia a pagamento. Una vera e propria forma di turismo, conosciuta come “caccia ai trofei”, che prevede l’uccisione di animali selvatici per divertimento. Già, sembra impossibile che nel 2021 una cosa simile sia legale, ma lo è. Come se non bastasse, in Sudan questa pratica è ormai fuori controllo.
È quanto sostengono alcuni conservazionisti locali, tra cui Abubakr Mohammad, un ricercatore che si occupa di biodiversità e che ha rilasciato al quotidiano britannico Guardian un’intervista che lascia poco spazio ai dubbi. Secondo Mohammad, l’attuale crisi politica sta favorendo l’ingresso nel paese di una quantità crescente di cacciatori provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti. Mentre prima si vedevano principalmente turisti dal golfo Persico, da quando il presidente Omar Al Bashir non è più al governo “le licenze di caccia vengono concesse in maniera indiscriminata”. Va detto che Al Bashir è stato accusato varie volte di crimini di guerra e che, nei mesi successivi alle sue dimissioni, sono stati raggiunti notevoli traguardi sul fronte dei diritti umani, come l’abolizione delle mutilazioni genitali femminili.
Mohammad crede però che anche la conservazione dovrebbe rappresentare una priorità: sono in aumento le pagine Facebook di tour operator che postano fotografie di cacciatori sorridenti al fianco delle specie rare appena uccise, tant’è che in molti casi ne sarebbe stata chiesta la rimozione. In particolare, gli attivisti come Mohammad temono per il futuro dello stambecco della Nubia (Capra nubiana), meglio conosciuto come stambecco del deserto.
Si tratta di un animale molto raro in Sudan, classificato come vulnerabile dall’Unione internazionale per la conservazione della natura. È una capra selvatica originaria della penisola arabica e dell’Africa nord-occidentale, imparentata con lo stambecco delle Alpi. Chi lotta per la fauna sudanese chiede che le leggi siano aggiornate per garantirne la salvaguardia, istituendo un ente preposto a tale compito e mettendo fine a pratiche aberranti come la caccia ai trofei.
Vietarla definitivamente non sarà facile poiché in gioco ci sono gli interessi delle persone che ne traggono profitto: generalmente il denaro finisce proprio “nelle tasche del governo, sotto forma di mazzette, e in quelle dei proprietari delle riserve di caccia”, rivela Andrea Crosta, co-fondatore di Earth league international, un’organizzazione che ha messo l’intelligence al servizio della natura con l’obiettivo di contrastare i crimini contro l’ambiente e i traffici illegali di parti di animali. Non è vero, quindi, che i soldi spesi dai cacciatori permettano alla popolazione locale di garantire la conservazione delle specie. Piuttosto, servono ad arricchire persone già potenti. Senza contare che, spesso, nelle riserve non esistono regole: “C’è chi spara dalle macchine in corsa, di notte, chi usa fucili semiautomatici, esche, chi attacca gli animali mentre si abbeverano”, continua Crosta.
Insomma, è ora che questi atti criminali vengano considerati come tali, anziché legittimati. Secondo Mohamed al-Tayeb, un altro attivista, in Sudan questo sarà possibile solo quando il paese non sarà più in mano alle milizie. Risulta quindi evidente che dalla risoluzione di questa crisi dipenda la vita degli stambecchi quanto quella degli esseri umani, specie il cui destino, come quello di tutti gli animali, appare indissolubilmente intrecciato.
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