I cambiamenti climatici peggiorano le disuguaglianze, perché colpiscono in modo più grave le fasce vulnerabili della popolazione. Lo dimostrano i dati.
Il riscaldamento globale è, per definizione, un fenomeno che accomuna l’intera umanità. A differenza per esempio delle polveri sottili, che avvelenano l’aria su scala locale, i gas serra si accumulano nell’atmosfera e fanno aumentare la temperatura media del Pianeta, indipendentemente da dove sono stati emessi. Eppure, le fasce più vulnerabili della popolazione partono comunque svantaggiate. Perché hanno meno strumenti per prevenire l’impatto del clima, affrontarlo e riparare i danni. A confermarlo è un nuovo report dell’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti (Epa) che si sofferma proprio sulle disuguaglianze sociali ed economiche.
Lo studio dell’Epa su cambiamenti climatici e disuguaglianze
Lo studio si focalizza su quattro categorie di persone ritenute vulnerabili: quelle a basso reddito, appartenenti a una minoranza etnica, anziane oppure con un titolo di studio inferiore al diploma di scuola superiore. Lo scenario climatico ritenuto più probabile vede la temperatura media globale innalzarsi di due gradi centigradi e il livello dei mari di mezzo metro. Una prospettiva dura ma realistica, visto che il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (Unep) teme che entro la fine del secolo si sfondi addirittura il tetto dei tre gradi centigradi.
Dopodiché, il report identifica le zone degli Stati Uniti più esposte a sei diverse conseguenze della crisi climatica e ambientale: i decessi dovuti alle temperature estreme, le patologie respiratorie scatenate dal particolato atmosferico, gli ingorghi stradali a causa di forti precipitazioni e allagamenti, le ore di lavoro all’aperto perse per le temperature intollerabili, gli allagamenti in casa dovuti all’innalzamento del livello dei mari o, in alternativa, alle alluvioni. Dall’incrocio di questi due dati è possibile rispondere a una grande domanda: in proporzione, in tali territori abitano più persone vulnerabili? Si può quindi dire che queste ultime patiscano le conseguenze dei cambiamenti climatici in modo più grave rispetto al resto della popolazione americana?
Negli Usa, le minoranze etniche vivono in zone più a rischio
La risposta è sì, soprattutto per le minoranze etniche. Più nello specifico, i neri e gli afroamericani hanno più probabilità rispetto agli altri di vivere in aree caratterizzate da un aumento della mortalità per le temperature estreme (la differenza è del 40 per cento) e delle diagnosi di asma infantile (+34 per cento). Gli ispanici e i latino americani invece tendono a vivere in zone dove in futuro si perderanno ore lavorative (+34 per cento di probabilità), i nativi americani in zone soggette a inondazioni per l’innalzamento del livello dei mari (+48 per cento).
Chi ha un basso reddito o un basso titolo di studio, invece, ha più probabilità di vivere in territori dove si perderanno ore di lavoro (+25 per cento), aumenteranno le diagnosi di asma infantile (+15 per cento) e inondazioni per l’innalzamento del livello dei mari (+15 per cento). Gli anziani sono gli unici per cui non sono state riscontrate correlazioni significative.
Because of #ClimateChange, extreme temperature conditions are becoming more common. In large cities, the average number of heat waves per year has tripled since the 1960s.
Gli eventi meteo estremi flagellano gli stati più poveri
Che gli eventi meteo estremi spesso e volentieri si abbattano su zone del mondo poverissime, purtroppo, non è una novità. La ong Germanwatch, nelle pagine del Climate risk index 2021, ha messo in fila cicloni, frane, ondate di siccità, incendi, piogge e grandinate torrenziali che si sono susseguiti nel mondo tra il 2000 e il 2019. In tutto sono stati undicimila, per un totale di 475mila morti e 2.106 miliardi di euro di danni economici. Nella top 10 dei paesi più flagellati in questi 19 anni troviamo, nell’ordine, Porto Rico, Myanmar, Haiti, Filippine, Mozambico, Bahamas, Bangladesh, Pakistan, Thailandia, Nepal.
Vive in Mozambico Domingos Jequissene, ora settantunenne, costretto nel 2019 a trasferirsi nel campo di accoglienza di Ndeja perché il ciclone Idai aveva spazzato via la sua casa. Per più di un anno si è rimboccato le maniche per costruirsi una nuova sistemazione e poi, a febbraio del 2021, un altro ciclone – Eloise – l’ha rasa al suolo. Togliendogli tutto, ancora una volta. A raccontare la sua storia è l’organizzazione umanitaria Oxfam che proprio sul tema delle disuguaglianze si batte strenuamente. “I cicloni in Mozambico, più forti e più frequenti, mostrano quanto questi disastri climatici di origine antropica possono diventare distruttivi per le persone più vulnerabili”, sottolinea la direttrice regionale per l’Africa meridionale Nellie Nyangwa. “Ancora una volta, le persone che hanno meno responsabilità per la crisi climatica – inclusi donne e bambini – stanno pagando il prezzo più alto per i suoi effetti”.
Le disuguaglianze insite nella crisi climatica
Al tema della responsabilità è dedicato un altro studio, sempre di Oxfam, che disegna un mondo spaccato in due. Da un lato c’è il 10 per cento più ricco della popolazione globale che è responsabile di più della metà delle emissioni cumulative di gas serra e nell’ultimo quarto di secolo ha consumato il 31 per cento del carbon budget, cioè la quantità di CO2 che possiamo ancora emettere per avere speranze di rispettare l’Accordo di Parigi. Dall’altro lato ci sono 3,1 miliardi di persone, le più povere, che hanno generato il 7 per cento della CO2 e si sono fatte bastare il 4 per cento del carbon budget. Insomma, il Pianeta è uno, ma c’è chi lo fa viaggiare verso la catastrofe climatica e chi, invece, si limita a subire. Da qui l’accorato appello della ong: “I governi devono porre al centro della ripresa post-Covid la necessità di affrontare la doppia crisi del clima e delle disuguaglianze”.
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