Ci sono innumerevoli buoni motivi per prendersi cura del clima. E per farlo subito, con la serietà e la dedizione che merita. Dal clima infatti dipende il futuro degli ecosistemi, dell’economia, della sicurezza alimentare, ma anche della salute mentale delle persone. Un legame che è ormai dimostrato da numerosi studi scientifici.
Il clima preoccupa più della Covid-19
Qual è la principale minaccia per la sicurezza nazionale? A una domanda del genere posta nel mese di settembre del 2021, nel bel mezzo di una pandemia di cui ancora non si vede la fine, ci si aspetta di sentir parlare del coronavirus. Invece, l’89 per cento degli italiani intervistati dall’Istituto affari internazionali e dall’università di Siena nomina l’emergenza climatica, in modo trasversale rispetto all’età e all’orientamento politico. Le pandemie sono al secondo posto in classifica, a quota 85 per cento.
Dall’altra parte del mondo, in Australia, i cittadini hanno le idee ancora più chiare: la Covid-19 è ritenuta “un grosso problema” dal 25,3 per cento degli oltre 5mila intervistati, i cambiamenti climatici dal 66,3 per cento. Ben tre volte tanto. L’ansia serpeggia non solo tra i giovanissimi della generazione Greta ma anche tra le donne e gli adulti di età compresa fra i 35 e i 55 anni, il cui pensiero va al futuro dei propri figli. Risultati prevedibili, sostengono gli autori della ricerca, ma non per questo meno preoccupanti. Perché questo “onere sulla salute mentale” non potrà che peggiorare, insieme alle condizioni del pianeta. E pochissimi chiedono il supporto di un terapeuta.
Climate anxiety is real. Why talking about it matters https://t.co/PTVcZp8Ett The effect that climate change has on mental health is less immediately obvious or visible. Recent studies have shown it is being felt by young people all over the world. #climateanxiety#ClimateCrisis
D’altra parte, quando un incendio divora ettari di foresta o un uragano si abbatte su una città, di solito si pubblica il bilancio di morti, feriti e sfollati, seguito dalla stima dei danni economici dovuti a case e infrastrutture distrutte. È molto più raro sentir parlare delle conseguenze in termini di salute mentale. Eppure esistono, eccome. Tra i cittadini esposti alle alluvioni nel Regno Unito tra il 2011 e il 2014, si è registrato un aumento dei casi di ansia, depressione e disturbo da stress post-traumatico. Le alluvioni del 2011 in Thailandia, secondo alcuni studi, hanno incrementato del 50 per cento il rischio di gravi sintomi ansiosi e depressivi.
Bisogna tener conto del fatto che i disastri naturali spesso incidono sulle scelte di vita delle persone, tracciando una linea di demarcazione tra il prima e il dopo. Dopo l’uragano Maria del mese di settembre 2017, decine di migliaia di portoricani sono stati costretti a spostarsi in Florida. I loro tassi di disturbo da stress post-traumatico sono risultati maggiori rispetto a quelli di chi ha avuto la possibilità di restare in patria.
Le conseguenze dell’uragano Katrina sulla salute mentale
Una delle prime occasioni in cui le conseguenze sulla salute mentale sono state studiate compiutamente è stato l’uragano Katrina che ha travolto New Orleans nel 2005, provocando più di 1.800 morti e lasciando 400mila persone senza una casa. Una circostanza resa ancora più dolorosa dalle grosse falle negli interventi di soccorso, che hanno fatto sì che la popolazione si sentisse abbandonata dal governo federale.
I ricercatori di tre università americane hanno sottoposto un’indagine a 386 persone che hanno vissuto momenti drammatici in prima persona; per esempio, sono stati separati dalla loro famiglia, hanno assistito a saccheggi o altri reati, hanno visto persone ferite. Più della metà di questo campione ha manifestato uno o più sintomi di disturbo da stress post-traumatico. Sintomi che vanno scemando nel tempo ma, per una persona su sei, persistono addirittura a dodici anni di distanza dall’evento. Anche in assenza di veri e propri segnali di Ptsd, i sopravvissuti hanno ottenuto performance più basse nei test relativi sulla flessibilità mentale, sull’elaborazione cognitiva e sull’attenzione prolungata. Fattori che hanno ulteriormente compromesso la loro capacità di risollevarsi.
Cosa possiamo fare per tutelare la nostra salute mentale
Tutto ciò significa che dobbiamo rassegnarci a un futuro più grigio, anche in termini di benessere emotivo? Non necessariamente. Anzi, essere consapevoli di queste possibili difficoltà ci aiuta a fronteggiarle a testa alta. A dirlo è Sarah Lowe, psicologa clinica e docente di Scienze comportamentali a Yale, intervistata dalla Cnbc.
Il primo passo, suggerisce Lowe, è quello di mostrarsi preparati. A livello individuale, comprando generatori, pompe o altre attrezzature capaci di limitare i danni in caso di alluvioni, incendi o uragani. Una lungimiranza che a un livello più alto e istituzionale si traduce nelle varie politiche di adattamento, nei piani di evacuazione, in una pianificazione urbana intelligente che evita le zone costiere e i bacini fluviali, nella formazione.
Tutto questo non solo limita i futuri danni, ma accresce anche il senso di coesione e fiducia all’interno della comunità. Lowe invita a riflettere su quanto tutto sia collegato: un’azienda che si mette in sicurezza riuscirà a continuare le operazioni anche dopo un evento meteo estremo, permettendo ai suoi dipendenti di mantenere il posto di lavoro e la serenità che ne consegue.
Solastalgia, l’ansia dovuta ai cambiamenti climatici
Non tutti, per fortuna, siamo costretti a lasciare le nostre case o a emigrare per ondate di siccità, alluvioni o altri disastri di questo calibro. Ma i cambiamenti climatici possono comunque toccarci nel profondo. Per questa condizione esiste anche un neologismo, solastalgia. Descrive “la nostalgia di casa che si prova quando si è ancora a casa”, perché ci si sente impotenti di fronte ai mutamenti repentini e negativi, dovuti a fattori esterni, che cambiano volto per sempre a quell’ambiente che un tempo appariva così familiare.
Il termine è stato coniato nel 2003 dal filosofo australiano Glenn Albrecht e deriva dal latino solacium (conforto) e dal greco algia (dolore). Per spiegare questo concetto Albrecht fa riferimento a un caso in particolare, quello della contea di Upper Hunter, in Australia. Fin dagli anni Ottanta, racconta, la popolazione ha vissuto in prima persona l’impatto negativo delle miniere di carbone a cielo aperto e della grave siccità, fino a perdere quel senso di intima connessione verso il proprio territorio.
In questi casi non è lecito parlare di trauma, sottolinea Sarah Lowe, ma ciò non toglie che sia molto importante legittimare le emozioni altrui. E “riconoscere che va bene, ed è assolutamente valido, essere tristi per la perdita degli ecosistemi, essere ansiosi per il futuro dell’umanità, provare questi sentimenti”, esorta. “È triste vedere un paesaggio che cambia. È oggettivamente triste veder sparire la bellezza della natura. Fa paura pensare che un giorno la Terra potrebbe diventare inadatta alla vita umana”.
Finché queste emozioni si mantengono entro i livelli di guardia, possono avere anche un risvolto positivo perché motivano ad agire. L’attivismo, spesso e volentieri, nasce anche da qui. Ed è il modo migliore per evitare che queste sensazioni sfocino in un disturbo d’ansia generalizzato o in uno stato depressivo. Quando si fa la propria parte per cambiare le cose, quando si sente di poter fare la differenza, questo impeto viene incanalato in una direzione positiva, per sé stessi e per gli altri.
Finanza climatica, carbon credit, gender, mitigazione. La Cop29 si è chiusa risultati difficilmente catalogabili in maniera netta come positivi o negativi.