Un gruppo di studenti universitari ha raggiunto la città di Kaifeng l’8 novembre dopo cinque ore di viaggio in sella a biciclette in sharing
Il limbo dei palestinesi nei campi profughi in Giordania
In Giordania ci sono più di 2 milioni di rifugiati palestinesi in campi profughi ufficiali e non. Le loro storie raccontano la ricerca della loro identità, tra il ricordo di un passato doloroso e il desiderio di tornare nella loro terra.
L’acqua si riversa nelle strade di Amman nera, densa. Cade pesante, dritta: le macchine s’incolonnano rumorosamente, mentre l’umidità crea una cappa rigida che ovatta le voci dentro le vetture. Del fumo bianco riempie la vista, nascondendo i volti dei passanti. La città è bloccata: i taxi si arrampicano lentamente verso Hasan Street, la strada che porta al campo profughi palestinese di Al-Wehdat, nella parte sudest della città. Dei lunghi tendoni coprono le poche bancarelle rimaste, i rimasugli della pioggia cadono ai lati formando pozzanghere di fango scuro. I passanti si muovono veloci per rientrare nelle case, edifici bassi schiacciati l’uno sull’altro.
Il campo profughi di Al-Wehdat
Costruito nel 1955 dall’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, Al-Wehdat è uno dei quattro campi allestiti per ospitare i profughi della guerra del 1948, che oggi accoglie oltre 61.795 rifugiati secondo i dati dell’agenzia stessa. Intrecciatosi col tessuto urbano nel corso degli anni, il campo è cresciuto in altezza e densità, riscrivendo il perimetro amministrativo inizialmente deciso, fino a diventare un quartiere periferico di Amman.
Le strade interne sono strette, umide, labirintiche: le porte si susseguono l’una dopo l’altra, rivelando il sovraffollamento del campo, fatiscente e claustrofobico, e logorato dalla povertà. Abdel* è giordano, ha sei figli, e con la famiglia vive ad Al-Wehdat perché non può permettersi la vita in città. Descrive la situazione del campo come “miserabile”: la disoccupazione dilaga, molti faticano a trovare il cibo perché i soldi scarseggiano, e più della metà dei residenti non dispone di un’assicurazione sanitaria. L’Unrwa gestisce le scuole presenti, ma non tutti riescono a completare il percorso di studi.
Secondo l’Enciclopedia interattiva della questione palestinese, i non rifugiati costituiscono circa il 40% della popolazione totale del campo. In Giordania sono più di 2 milioni i rifugiati palestinesi registrati ma, mentre la maggior parte sono stati naturalizzati, i gazawi arrivati nel 1967, e i loro figli, rimangono in una sorta di limbo: in possesso solo di un passaporto temporaneo giordano, non hanno né un numero di identità nazionale, né la nazionalità giordana.
Wadee* fa il parrucchiere: dentro il negozio ci sono dei fiori di plastica anneriti in un vaso, delle vecchie foto appese al muro e una televisione che rimanda le notizie di Al-Jazeera. Ha vissuto per tutta la vita ad Al-Wehdat, dov’è nato, “ma sono palestinese”, specifica. “Questa terra ci appartiene”, dice indicando la televisione, “e Dio ce la restituirà perché crediamo in lui e nella sua fede”. E ricorda: “Ogni volta che qualcuno nominava la Palestina mio padre piangeva”, e il giorno in cui è andato in Cisgiordania ha capito “cosa significa essere nella propria terra, nel proprio Paese, senza essere un rifugiato”. Essere ospite in un Paese.
Nel campo di Baq’a
La strada verso Baqa’a è una lunga e lenta discesa dove le macchine scorrono una a fianco l’altra. Quartieri periferici costellati da palazzi bianchi, nuovi e vuoti, crescono nel paesaggio verde arido, asciutto, riempito da montagne lontane e basse. Il campo è infossato a fondo valle, visibile a occhio nudo da lontano: un grumo di cemento riparato dal vento, stretto tra campi, palme e alberi di ulivo, il più grande della Giordania. Una volta Baqa’a era composto da tende, poi sostituite dall’Unrwa con rifugi provvisori che nel tempo gli abitanti hanno ricostruito in cemento, materiale più resistente. Non ci sono alberi nel campo. Le zone d’ombra sono il riflesso delle case schiacciate, di qualche insegna ciondolante, di rare nuvole che ingombrano il cielo.
Dentro la scuola blu pastello dell’Unrwa ci sono dei lavori: nel cortile interno i bambini giocano a pallone, mentre il pomeriggio aleggia noioso scandito da qualche clacson lontano. Samira* aspetta dentro l’ufficio informazioni paziente, racconta che ha sei figli e ha frequentato l’università, interrompendo gli studi per sposarsi. “Non voglio che le mie figlie vivano allo stesso modo in cui ho vissuto io”, dice, mentre spiega che anche loro sono iscritte all’università, ma che vuole vadano fuori, perché “qui le opportunità sono limitate”. Samira racconta che per i suoi studi il padre si è indebitato, e ora lei non ha né i soldi né le capacità per far completare alle figlie l’università. “Il mio sogno è vederle un giorno laurearsi”.
Baqa’a pullula di bambini: corrono tra le macchine arrampicandosi sui vicoli stretti, ti osservano dalle scale, da dietro le finestre, ti vengono incontro a perdifiato tirandoti per un braccio o la giacca. Nel souk ci sono macellerie, negozi di spezie, panifici, barbieri e negozi d’abbigliamento: c’è folla, si cammina compressi l’uno sull’altro, il sole filtra tra le tende carezzando i volti delle donne impegnate negli acquisti.
Il vento alza della polvere sottile da terra: incrocio Hamdallah Naim che chiede in francese “si è persa?”. Il vicinato si affaccia curioso mentre ci avviciniamo a casa sua: appartamenti piccoli da dove si intravedono materassi per terra, scarpe consumate di varie misure sparse sul pavimento, uomini che discutono tra loro.
Hamdallah posa il bastone da passeggio e si accomoda sul divano: “Sono nato nel 1943 a Hebron (al-Khalil per i palestinesi), ma con la mia famiglia ci siamo trasferiti a Gerico nel 1948. Ricordo casa mia, il mio villaggio, i nostri terreni: ebrei, cristiani, musulmani, vivevamo l’uno accanto all’altro in pace”. Poi il conflitto ha travolto ogni cosa. Hamdallah arriva a Baqa’a nel 1967: studia, inizia a lavorare all’Ambasciata palestinese ad Amman, quindi viaggia per il mondo. “Ho visitato Parigi, Roma, l’Egitto, la Siria… e mio padre e mio fratello qui a chiedersi se avevo mangiato o no. Contavo i giorni che mancavano alle vacanze per tornare dalla mia famiglia”.
Poi indica fuori: “Cosa ci sarà dopo?”. Per Hamdallah è semplice: “Nella vita siamo tutti fratelli: se ho qualcosa in più lo do all’altro che non ne ha. È necessario vivere così”. E nonostante le condizioni del campo siano migliorate per alcuni – “la televisione non c’era cinquant’anni fa”- il ricordo nel cuore è rimasto lo stesso: “Mio padre non parlava il francese, l’inglese, né ha mai potuto visitare l’Italia, né rivedere Gerusalemme”. Sua figlia è una donna libera, “prima di sposarsi ha frequentato l’università”, il figlio Mohammad lavora in una società di ingegneria franco-giordana, mentre Malik, il più piccolo, studia la lingua araba. “Abbiamo solo una terra per vivere la vita come merita di essere vissuta”.
I matrimoni e i divorzi precoci rappresentano un altro problema da affrontare nei campi. La casa della famiglia di Ayman Alwawi si trova incastrata tra due vicoli strozzati dove si fatica a passare fianco a fianco. Le scale sono ripide e con una balaustra arrugginita, e portano a un terrazzo che costringe a camminare in fila indiana per poter raggiungere l’appartamento. La sera scende su Amman e i profili delle case si fanno più spigolosi, instabili: si moltiplicano le ombre che camminano rapide nel campo, il cielo s’ingrigisce minaccioso, mentre un vento secco trasporta la voce di un gruppo di bambini che gioca nella corte sottostante.
“Sono nato qui”, dice Ayman indicando i tetti di Al-Wehdat. I genitori sono arrivati in Giordania dopo il 1948, “sono quasi separato. Ho due figli, un maschio e una femmina”, sintetizza in una manciata di parole. La sorella Halima prepara un caffè e sistema dei biscotti in un piattino argento. La casa è piccola, bassa, con le luci soffuse: Ayman vive al piano di sotto, in un appartamento dove non ci sono finestre, la cucina s’incastra tra la camera da letto e il bagno, e un divano ingombrante riempie l’ingresso.
“Abitare nel campo come rifugiato mi ha insegnato ad avere fiducia in me stesso e a vivere in questo Paese come cittadino”, spiega. Ayman ha un impiego in un hotel poco distante dalla parte vecchia di Amman, ma “il reddito è basso. Si lavora a giornata”, ammette. “Se si presenterà l’occasione sarò il primo a partire per la Palestina”, dice mentre accoglie il fratello Khaled in casa. Dalle finestre la luce viene inghiottita dalla notte, le tende brillano di un bianco candido rivelando i dettagli di un ricamo fiorito. Non ha molto altro da darmi Ayman se non un mazzetto di menta raccolta da una piantina fuori casa: “Ad essere sincero non sono felice”, dice, gli occhi scuri e i capelli brizzolati sistemati per l’occasione. La giacca pulita e le scarpe migliori. “Qui sei la benvenuta”.
“Sei palestinese?”
Quando domandi in giro “sei palestinese?” la quasi totalità delle persone ti risponde di sì. Poi in molti aggiungono di voler tornare in Palestina anche se non ci sono mai stati, anche se sono nati in Giordania. La terra è l’appartenenza ad un popolo, ad una promessa. Ogni venerdì si tengono delle manifestazioni pacifiche in tutto il Paese in solidarietà con i palestinesi di Gaza. Ad Amman la grande preghiera di mezzogiorno si svolge con le forze dell’ordine che formano una lunga fila orizzontale a bloccare King Talal Street. Subito dietro un’altra fila sta a protezione della prima: le camionette chiudono i lati delle strade, mentre bandiere palestinesi sventolano nel silenzio rotto dalla voce del muezzin che riecheggia sola seguita dai movimenti dei fedeli.
La folla sfila rumorosa al passo con gli slogan recitati dai manifestanti: secondo un report di Human Right Watch, però, dal 7 ottobre gli arresti da parte delle autorità giordane durante le proteste del venerdì hanno portato al fermo di centinaia di persone. Ma anche all’arresto di persone impegnate in attività di supporto online. Questo perché ogni volta che il conflitto israelo-palestinese si riaccende il Paese si destabilizza, memore del Settembre Nero del 1970, quando l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat venne accusata di voler destituire con un colpo di Stato il re Hussein di Giordania, in uno scontro che causò migliaia di morti. Una tensione cresciuta negli ultimi giorni di marzo, durante alcune proteste sotto l’ambasciata israeliana ad Amman, dove le forze di sicurezza giordane si sono scontrate con i manifestanti pro-palestina che chiedevano al governo di annullare gli accordi di pace del 1994 sanciti con Israele. Rabbia che non si vedeva da un po’.
Il venerdì si incontrano bambini, qualche raro turista, molti palestinesi: si canta insieme per la Palestina, per la speranza che la guerra si fermi, qualcuno grida per Hamas, altri inneggiano contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Il sole brucia alto nel pomeriggio mentre le persone fanno ritorno nelle proprie abitazioni, e il traffico ricomincia a intasare le arterie principali. Il campo di Marka si trova a Russeifa, una città del governatorato di Zarqa: le case si arrampicano l’una sull’altra, in un susseguirsi di discese e salite che caratterizzano il terreno fertile della zona. Istituito nel 1968, questo ospita per la maggior parte palestinesi provenienti dalla Striscia di Gaza: come per gli altri rifugiati residenti nei campi ufficiali giordani, gli abitanti di Marka hanno il diritto di usare la terra ma non di possederla.
Un giorno la bellezza tornerà
“Hanno distrutto le loro case, sono morti in 25 a Gaza”, dice Mohammad Youssef parlando della sua famiglia. Cammina a piccoli passi, leggermente ingobbito dall’età, avvolto in un elegante cappotto nero. La casa è divisa in due piani collegati da delle scale strette, che conducono a un balcone che affaccia su tutto il campo. Le cupole delle moschee si stagliano sopra i palazzi, alcuni incompleti e altri coperti da lastre di alluminio ammaccate dall’usura: stormi di rondini si alzano in gruppo danzando in cielo, mentre questo inizia a sporcarsi d’arancio. Le montagne all’orizzonte sono una bussola in mezzo al terreno arido giordano.
“Ho lavorato come insegnante di lingua araba nelle scuole del ministero dell’Istruzione in Giordania”, spiega Mohammad indicando dei palazzi lontani. Nato a Gerico nel 1957, a Marka è arrivato nel 1968, dopo aver vissuto un anno ad Al-Wehdat: “All’inizio vivevamo nelle tende, sostituite poi dall’Unwra da unità più resistenti. Sono stati poi i palestinesi del campo con le loro mani a costruire le case”, spiega. Nel salotto Mohammad ha collocato un quadro che raffigura un uomo di spalle a cui è appesa una chiave simbolo della nakba, espressione dell’identità e della causa palestinese. Gesto volto a rappresentare la determinazione del popolo a voler tornare, un giorno, nella terra d’origine.
“Ricordo l’acqua scorrere, il profumo della natura e dei fiori, gli alberi verdi e maestosi”, racconta Mohammad, mentre sistema altri quadri su un tavolo con una tovaglia dorata che si allunga fino al pavimento. Volti di donna, paesaggi, figure astratte, un richiamo alla Palestina e alla sua identità, alla lotta e alla perdita. “È nel nostro sangue”, dice. L’umidità torna a incastrarsi tra il collo e il torace, il vento si alza in folate leggere e continue, il tramonto si è consumato lasciando brandelli rossi in cielo. “Un giorno la bellezza tornerà da noi, ora non ci resta che la miseria”.
*Nomi di fantasia
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