Dopo oltre tre giorni, gli incendi che hanno circondato la metropoli californiana non accennano ad arrestarsi. Almeno 10 i morti e quasi 200mila le persone evacuate.
Nel campo profughi di Beirut, le donne palestinesi ripartono dalle macerie
Nel campo profughi di Burj al-Barajneh, le donne palestinesi preparano pasti e distribuiscono aiuti alle persone in difficoltà nella città di Beirut.
- Dopo il cessate il fuoco, le condizioni di vita nel campo profughi di Burj al-Barajneh, a sud di Beirut, restano ancora molto difficili. Un gruppo di donne palestinesi sta lottando per tornare alla “normalità” e offrire aiuto.
- Il campo di Burj al-Barajneh è un’area di un chilometro quadrato dove vivono circa 40mila rifugiati palestinesi e siriani.
- Sul sito del ministero della Salute libanese si dichiara che nei due mesi di guerra nel paese sono state uccise 3.961 persone e ferite 16.520.
“Siamo esauste, ma dobbiamo continuare ad aiutare gli anziani, le famiglie e i bambini del campo. Da oltre 70 anni viviamo in una prigione a cielo aperto. La differenza, prima del cessate il fuoco, è che aspettavamo una bomba da un momento all’altro. Dopo la distruzione, ora c’è una tregua e dobbiamo pensare a ripartire. Non possiamo fermarci”.
A raccontare la sua testimonianza a LifeGate è Mariam al-Shaar, un’attivista palestinese nata nel campo profughi di Burj al-Barajneh, nella periferia a sud di Beirut, in Libano. Un’area di un chilometro quadrato, molto vicina all’aeroporto, che fino all’inizio degli attacchi israeliani del settembre scorso ospitava un numero vertiginoso e incalcolabile di rifugiati palestinesi e siriani, dai 20 ai 40mila. Da alcuni anni, tra i vari progetti, Mariam al-Shaar sta portando avanti un’impresa di catering gestita dalle donne del campo. La sua è una storia di coraggio e resilienza che ha fatto il giro del mondo, grazie al documentario “Soufra” prodotto da Susan Sarandon che è stato anche candidato agli Oscar.
Durante i due mesi di conflitto, nonostante gli ordini di evacuazione dell’esercito israeliano, al-Shaar e un gruppo di donne avevano deciso di restare nel campo profughi e di aiutare la comunità, preparando ogni giorno centinaia di pasti per gli sfollati. “Da settembre a novembre abbiamo distribuito 12mila pasti”. Racconta al- Shaar: “Oltre a vestiti, materassi e kit igienici per donne e anziani, alle famiglie rimaste nel campo e nei centri di accoglienza per gli sfollati, la distribuzione di aiuti sta proseguendo. Ma nel campo profughi dobbiamo far ripartire i progetti che sono stati interrotti dal conflitto: la scuola per i bambini rifugiati, i corsi di formazione per le donne e i giovani. Ma la cosa più urgente è il supporto psicologico. La gente è traumatizzata”.
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Il campo profughi è una prigione a cielo aperto dove arriva solo l’acqua di mare
Il 26 novembre il sito del ministero della Salute libanese riportava 3.961 persone uccise, 16.520 i feriti dall’inizio del conflitto. La zona conosciuta come Dahieh, che letteralmente significa “periferia”, è stata la più colpita della capitale Beirut. È considerata la roccaforte di Hezbollah, che oltre ad essere la una milizia filoiraniana è il partito politico che nel 2022 ha ottenuto il maggior numero di preferenze. Dahieh si trova a sud della città ed è una delle aree più densamente popolate del Libano. Comprende diversi quartieri, sia residenziali che commerciali, e i campi profughi di Burj al-Barajneh e Shatila.
Burj al-Barajneh è uno dei 12 campi palestinesi presenti in Libano, paese che ha il più alto numero di rifugiati pro capite al mondo. Circa 1,5 milioni su oltre 5 milioni di abitanti. I profughi vivono “in una prigione a cielo aperto” per la negazione di molti dei diritti fondamentali da parte del governo libanese, come il diritto alla proprietà, il diritto ad accedere ai tribunali e il diritto al lavoro perché ai rifugiati è vietato l’accesso a 33 professioni, tra cui quella medica. Per guadagnare spazio abitativo nel campo di Burj al-Barajneh hanno dovuto toglierlo alle strade, creando un labirinto di vicoli strettissimi con grovigli di cavi elettrici che corrono accanto alle tubature dell’acqua. Acqua di mare, perché nelle case dei profughi arriva solo quella.
Per un rifugiato, vivere nella difficoltà estrema è la norma
Con l’inizio dei bombardamenti massicci di Israele, circa il 90 per cento degli abitanti di Burj al-Barajneh sono stati costretti a fuggire in zone più sicure della capitale e del paese. Al-Shaar aveva deciso di restare e di mettere a disposizione l’esperienza acquisita con la sua associazione Makani per fornire aiuto. “L’impegno in ambito sociale è la mia missione e ho sentito la responsabilità di continuare a farlo, nonostante i rischi”, spiega al-Shaar. “Durante i mesi di guerra sono stata responsabile dell’organizzazione della cucina. Dovevo prima di tutto procurare le materie prime. È stato molto complesso perché i prezzi aumentavano e le risorse erano sempre meno. Un gruppo di donne preparava dai 300 ai 500 pasti e altri giovani volontari li distribuivano all’interno del campo e fuori. Abbiamo vissuto circondati dal pericolo, non sapevamo se ci saremmo svegliati la mattina, ma eravamo certe di voler andare avanti”, prosegue. “Vivere nella difficoltà, anche estrema, è una condizione che il rifugiato, purtroppo, conosce molto bene. Per noi è così da oltre 70 anni. Questa non è stata nemmeno la prima guerra che abbiamo dovuto affrontare, ma è stata la più feroce”.
La vita nel campo profughi di Beirut durante il cessate il fuoco
“Molti edifici, anche quelli rimasti in piedi, sono stati resi comunque inagibili a causa dei bombardamenti”, racconta al-Shaar. “Durante i giorni di guerra non avevamo la corrente, ma da sempre l’elettricità è un problema enorme nel campo profughi. Le persone devono contare sui generatori gestiti da privati, ma il costo del servizio è altissimo e le famiglie riescono a pagare solo per una quantità minima di energia. Per avere una lampadina accesa in casa, non certo per riscaldare le stanze. E il freddo si sta facendo sentire”, prosegue. “Al momento, i problemi principali delle famiglie riguardano l’acquisto di cibo perché i prezzi sono schizzati alla stelle. Se pensiamo ai bambini, molte delle scuole a sud di Beirut sono state distrutte e anche il semplice materiale scolastico ha dei prezzi inaccessibili. Accanto alla condizione di miseria, c’è la gestione delle conseguenze psicologiche, pesantissime, che questi 60 giorni di guerra hanno causato. Le ripetute violazioni del cessate il fuoco nel sud del Libano continuano a nutrire il terrore della ripresa del conflitto”.
“Crediamo che nel mondo non esista più giustizia”
Anche con la guerra in atto, l’associazione Makani aveva avviato un programma di supporto per i bambini rimasti nel campo. “Oltre a quello che hanno visto, è ancora intensa la paura di quello che può succedere”, aggiunge al-Shaar. “I bombardamenti li hanno costretti a vivere incubi che sembravano senza fine. Hanno assoluto bisogno di un sostegno psicologico. Per questo, abbiamo deciso di organizzare delle iniziative per restituire attimi di normalità e cercare di ridurre il livello di stress. Proponiamo giochi, laboratori artistici e altre occasioni di incontro. Abbiamo il dovere di riaccendere momenti di gioia nei loro occhi”.
Insieme ai bambini ci sono gli anziani e quell’incubo della Nakba, l’esodo forzato del 1948, che si ripete. “Quando sono iniziati gli attacchi, la maggior parte degli anziani non voleva lasciare il campo”, prosegue. “Per loro ogni forma di sfollamento significava rivivere la Nakba. Hanno sempre sostenuto che se ne sarebbero andati solo per tornare in Palestina. In realtà i loro figli li hanno costretti a lasciare le loro case per salvarsi dalla ferocia della guerra”, precisa al-Shaar. “Pensando anche a quanto sta succedendo a Gaza, crediamo che nel mondo non esista più la giustizia. Abbiamo perso la fiducia anche nelle organizzazioni internazionali. Ora la nostra unica speranza è nelle persone libere come voi e che conservano ancora la loro umanità. Spero anche che riceveremo attenzione e sostegno per resistere il più possibile”. Sul muro di un edificio di Burj al-Barajneh si legge questa scritta: “Le persone hanno una patria in cui vivere, ma la nostra patria vive in noi“.
Netanyahu: “È un cessate il fuoco, non la fine della guerra”
Il 27 novembre scorso è entrato in vigore un accordo tra Israele e Libano che prevede, entro un termine di 60 giorni, il ritiro delle truppe di Israele dal sud del Libano e la demilitarizzazione di Hezbollah nell’area di territorio libanese che dalla Blue line, la linea di confine, arriva fino al fiume Litani, a circa 30 chilometri di distanza. L’obiettivo è creare tra i due stati una zona cuscinetto nella quale è previsto il solo dispiegamento delle Forze armate libanesi (Laf) con il supporto di Unifil, la Forza di interposizione Onu in Libano. A monitorare e valutare il rispetto dei punti definiti nel documento sono gli Stati Uniti e la Francia. Questo nuovo accordo riprende il documento della Risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza dell’Onu che pose fine, almeno sulla carta, al conflitto del 2006 durato 34 giorni.
Come già avvenne nel 2006, diverse violazioni del cessate il fuoco con almeno una dozzina di vittime libanesi da parte di Israele sono state evidenziate dagli Stati uniti e dalla Francia, anche con droni delle Forze di difesa israeliane (Idf) che sono arrivati nuovamente nel cielo sopra Beirut. Per il governo israeliano, Hezbollah è invece responsabile del lancio di colpi che hanno raggiunto la zona del monte Dov, un’area agricola di quattordici fattorie nel punto di incontro tra Siria, Libano e Israele, che Hezbollah ritiene illegalmente occupata da Israele. La reazione del ministro della Difesa israeliano Israel Katz è stata netta: “Fino ad ora abbiamo distinto il Libano da Hezbollah, ma questa visione può cambiare”. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha poi ricordato che “questo è un cessate il fuoco, non la fine della guerra”.
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