Le centrali italiane si stanno spegnendo, ma il carbone continua ad alimentare alcuni paesi europei e i colossi asiatici. Un ritardo che peserà sui consumatori.
Una lenta, inesorabile agonia. Pare essere questa la fine a cui sta andando incontro il carbone, uno dei combustibili fossili più inquinanti e dalle maggiori emissioni. Almeno in Europa. Brutto, sporco, ma economico e disponibile, ha segnato e continua a segnare la produzione energetica a livello globale. Ma il cosiddetto phase out (abbandono) sembra ormai iniziato, nonostante i numeri più recenti paiono dire il contrario, tanto da aver spinto l’Europa lo scorso gennaio 2021 a chiederne l’abbandono a livello globale.
Che il carbone sia ormai in forte declino in tutta Europa è un dato di fatto, anche se i segnali sono piuttosto discordanti e causati indubbiamente dalla pandemia prima e dalla ripresa economica dopo. Infatti la produzione globale di carbone è scesasolo del 4 per cento nel 2020, a circa 6,9 miliardi di tonnellate. Tutto il mondo occidentale comunque ha visto una forte contrazione della domanda di carbone, con 390 milioni di tonnellate nel 2020: una riduzione del 22 per cento rispetto al 2019. Al contrario, la domanda del combustibile fossile in Asia è rimasta sostenuta, tanto che la produzione cinese si è attestata a 3.690 milioni di tonnellate, stesso valore del 2019. Non solo, ma l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), prevede un forte rimbalzo nel 2021 con una domanda globale di carbone in aumento del 4,5 per cento rispetto al 2019. Ripresa visibile proprio in uno dei più grandi produttori di carbone in Europa dopo la Polonia: la Germania. Qui la produzione di lignite nel primo trimestre del 2021 è aumentata del 25 per cento rispetto all’anno precedente.
Ma è la stessa Aie ad affermare, che per raggiungere le emissioni nette entro il 2050, sarà fondamentale cancellare gli investimenti “in nuovi progetti di fornitura a combustibili fossili e nessuna ulteriore decisione di investimento per nuove centrali a carbone”. A confermare che il trend sia questo c’è il recente annuncio di Enel, uno dei principali provider energetici nazionale ed internazionale: “A livello globale stiamo uscendo da questa tecnologia, secondo un piano che prevede di completare il phase out entro il 2027, anticipato di 3 anni rispetto al precedente obiettivo 2030”, spiega a LifeGate Luigi La Pegna, responsabile Hydro, geothermal and thermal generation di Enel global power generation.
Il phase out italiano dal carbone è già cominciato
La tendenza italiana sembra questa. Infatti nel 2019 il ministero dello Sviluppo economico e del lavoro, in collaborazione con l’allora ministero dell’Ambiente (oggi della Transizione ecologica), aveva deciso la chiusura delle centrali a carbone entro il 2025, in linea con il Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima) di allora. “Non siamo lontanissimi”, spiega a LifeGate Filippo Taglieri, campaigner di Re:common. “Anche se ogni centrale ha la sua storia. Ad esempio quelle di La Spezia e di Fusina sono in chiusura nel 2023, anche se andavano già al minimo. Civitavecchia invece che abbiamo visitato recentemente ha un solo gruppo funzionante”.
In tutto sono ancora otto le centrali funzionanti sul territorio nazionale, che rappresentano circa 8 gigawatt (GW) di capacità installata. “In Italia per favorire e accelerare l’uscita dal carbone è necessario realizzare un importante piano di sviluppo delle fonti rinnovabili e nuova capacità flessibile in grado di rispondere alle esigenze della rete: accumuli e, in alcuni limitati casi, nella misura strettamente necessaria per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale, impianti a gas ad alta efficienza”, sottolinea La Pegna. Ma se per il responsabile della società energetica è necessario aumentare la quota di rinnovabili e dei sistemi di accumulo, sarà fondamentale anche “ lavorare sull’intera filiera, dalla produzione di energia elettrica al trasporto fino al consumo”, per avere un’elettricità “prodotta sempre più da fonti rinnovabili, e quindi senza emissioni, immessa in reti intelligenti e sempre più resilienti”.
Nel 2020 i volumi di carbone acquistati e bruciati nelle centrali Enel sono stati complessivamente pari a circa 6 milioni di tonnellate, parte di queste provengono dalla miniera del Cerrejón, in Colombia, definita anche come la “miniera della discordia”. Come spiega Re:common il Cerrejón è una delle più grandi miniere a cielo aperto del mondo, che ha causato negli anno lo spostamento forzato di comunità indigene e afro-colombiane e l’inquinamento diffuso dell’aria e dell’acqua. Enel conferma che il gruppo acquista carbone della miniera colombiana Cerrejon, attraverso la società collegata Cmc-Coal Marketing (Cmc), ma che ad oggi sono in essere contratti stipulati in anni precedenti con termine delle consegne entro dicembre 2021. In linea con la strategia globale di decarbonizzazione, il gruppo ha acquistato negli ultimi anni quantità di carbone sempre decrescenti che a oggi rappresentano una quota marginale dell’acquisto di combustibili. Per quanto concerne la Cmc in particolare nel corso di quest’anno 2021 è previsto l’acquisto di circa 9oomila tonnellate di carbone.
Nel frattempo la centrale termoelettrica Federico II di Brindisi, in funzione fin dal 1997, lo scorso gennaio ha chiuso il primo gruppo. Ad oggi è tra le centrali più grandi d’Europa, e la seconda più grande in Italia: con oltre 10 milioni di tonnellate di CO2 emesse ogni anno, si contende il primo posto con la centrale laziale di Torrecavadaliga Nord (a Civitavecchia) per emissioni e per valore economico dei danni associati all’inquinamento. Per lo stesso motivo rientra anche tra le venticinque centrali col più alto impatto ambientale d’Europa, come riportato dal think tank Beyond Coal. “A fine 2019 Enel ha chiuso la centrale di Bastardo, a fine 2020 ha chiuso il Gruppo 2 della centrale Federico II di Brindisi mentre i gruppi 1 e 2 della Andrea Palladio di Fusina saranno dismessi a fine di questo anno (2021, ndr), in linea con le autorizzazioni delle autorità competenti”, conferma La Pegna.
Negli ultimi mesi ha però tenuto banco il nodo occupazionale, sia per quanto riguarda Brindisi che Civitavecchia, due dei poli più grandi del settore energetico del paese. “L’impatto sui lavoratori era già stato annunciato e lo si è notato con il calo della domanda di energia”, spiega Taglieri. “Sicuramente c’è un problema perché occorre ricollocare i lavoratori: le centrali a turbogas hanno bisogno della metà dei dipendenti, anche se la società non dovrebbe avere problemi a ricollocare numeri che sono dell’ordine di qualche centinaio di persone”. Attualmente la Federico II di Brindisi occupa circa 300 persone dirette, e la prossima chiusura significherebbe la perdita dell’indotto che si basa sulle attività legate alla movimentazione del carbone e quindi anche sulle attività portuali, oltre alla manutenzione e alla logistica.
Per quanto riguarda Civitavecchia, la posizione dei sindacati e della Regione Lazio parrebbe orientata ad una riconversione “verde” della centrale. Per la Cisl Lazio “l’impulso per la svolta energetica dovrebbe partire da una modernizzazione della rete elettrica e da incentivi che permettano una transizione sempre più consistente verso la scelta di energie rinnovabili”.
Un discorso a parte andrebbe fatto per la Sardegna, dove sono ancora operative le centrali Porto Torres e di Portovesme. La proposta che arriva sia dal governo, da Terna (gestore della rete elettrica) e da Enel (proprietaria degli impianti in questione) è quella di fare della regione “una vera a propria ‘isola verde’ entro il 2030, attraverso una produzione energetica a zero emissioni e l’elettrificazione di attività e consumi”, spiega La Pegna. “In considerazione di alcune caratteristiche specifiche del territorio, come un utilizzo praticamente nullo di gas e una previsione di un significativo incremento della connessione elettrica con la penisola grazie alla realizzazione di un nuovo collegamento (Thyrrenian Link), l’azienda ha proposto per la Sardegna di passare direttamente ad un’alimentazione energetica da sole fonti rinnovabili supportate da sistemi di accumulo”.
La transizione energetica italiana passa dal gas
Nonostante le proposte in essere e un’apparente volontà di ulteriore sviluppo delle rinnovabili, la conversione energetica dell’Italia è tutta concentrata sul gas naturale come “combustibile di transizione”. Per sopperire all’uscita dal carbone, le utility prevedono infatti di costruire, nel prossimo decennio, nuove centrali a gas per una capacità complessiva di 14 GW, di cui 5,8 GW sono già garantiti da contratti di approvvigionamento aggiudicati nel mercato della capacità (capacity market) e che dovrebbero entrare in servizio entro il 2023.
“Lo sviluppo di capacità flessibile a gas, nella misura strettamente necessaria per la stabilità e la sicurezza del sistema elettrico nazionale, è indicato dal Pniec come strumento di medio periodo indispensabile e necessario per una adeguata e progressiva transizione verso la generazione basata sempre più su fonti rinnovabili”, spiega La Pegna. “Sarà l’effettiva evoluzione del sistema elettrico nazionale dei prossimi anni a determinare per quanto tempo saranno necessari questi impianti per la sicurezza e la stabilità della rete, ma si tratta di una tecnologia transitoria che va a supporto di un modello più sostenibile con l’obiettivo di una generazione completamente da fonti rinnovabili”.
Ma per gli analisti di Carbon Tracker i piani di costruzione di nuove centrali a gas in Italia potrebbero mettere a rischio gli obiettivi climatici del paese e comportare perdite fino a 11 miliardi di euro in investimenti, mancando l’occasione di ridurre i consumi domestici di energia elettrica. È piuttosto interessante notare come già ad aprile 2021 gli esperti del think tank avvisavano che “se l’Italia continua a puntare sulla generazione di energia elettrica tramite le centrali a gas anziché su soluzioni basate su energia pulita a basso costo, i consumatori vedranno un aumento in bolletta”.
Non solo, ma un recente rapporto del Centre for research on energy and clean air (Crea), dal titolo “Ripe for closure: accelerating the energy transition and saving money by reducing excess fossil fuel capacity”, mostra come nove degli Stati europei, tra cui l’Italia, potrebbero da subito chiudere le centrali a combustibili fossili per un totale di 48,8 GW di potenza installata senza mettere a rischio le forniture di elettricità per famiglie ed imprese. Si tratta di ben il 17 per cento di tutta la potenza installata in centrali fossili in Europa. Con il pensionamento anticipato delle centrali non necessarie, il risparmio dei costi fissi operativi e di manutenzione sarebbe di quasi 2 miliardi di euro l’anno.
Il capacity market. Risorsa o bluff?
Ad essere sotto accusa è il mercato della capacità: approvato nel 2019, è nato con l’obiettivo di affiancare la progressiva dismissione delle centrali a carbone tutelando al tempo stesso la capacità della rete di garantire adeguate forniture programmabili di energia elettrica. Il meccanismo introdotto da questo mercato punta a remunerare i grandi impianti in base alla loro disponibilità a produrre energia in caso di necessità o, in alternativa, a premiare gli operatori della gestione della domanda per la disponibilità a ridurre i consumi. “Si tratta di remunerare gli impianti termici indipendentemente dalla quantità di energia che producono”, spiega a LifeGate Matteo Leonardi, co-fondatore di Ecco, think tank indipendente. “Questo sistema porta ad acquisire nuova capacità, con un incentivo a costruire nuove centrali indipendentemente che vengano usate o meno”. Si tratterebbe dunque di un sistema che incentiva in modo sproporzionato, premiando la produzione elettrica da parte di impianti a gas, esistenti e nuovi.
Nel frattempo “le nuove aste per attribuire i sussidi per il 2024 e 2025 previste in estate sono state rimandate, ma probabilmente di poco”, spiega Re:common in una nota stampa. “Oltre che calmierare i sovrapprezzi nelle bollette elettriche – per altro dovuti all’aver puntato in maniera ottusa solo sul gas negli ultimi anni – una autentica transizione ecologica che sia anche giusta richiederebbe di fermare subito le nuove centrali a gas senza se e senza ma”.
Cosa fare delle vecchie centrali, il caso Monfalcone
Altro nodo cruciale sono le bonifiche e le riconversioni dei siti produttivi, una volta saranno dismessi. “Si tratta di riqualificare gli impianti in un’ottica di economia circolare, valorizzando le aree su cui sorgono le strutture e riutilizzando, laddove possibile, materiali e parti degli impianti stessi, per ridurre il consumo di materie prime”, spiega La Pegna. Un esempio virtuoso lo si può trovare nella centrale spagnola Teruel, in Andorra che prevede un investimento di oltre 1.487 milioni di euro e ha l’obiettivo finale di installare 1.725 MW di energia rinnovabile, di cui 1.585 MW da energia solare, facendone il più grande impianto in costruzione per tale tecnologia in Europa, e 140 MW da energia eolica, oltre ad un sistema di accumulo di energia su larga scala fino a 160 MW.
“In Italia per il sito di Porte Tolle in Veneto è stato siglato un preliminare di vendita con un gruppo del turismo open air per realizzare un innovativo villaggio ricettivo; completate le attività propedeutiche sono ad oggi in corso le demolizioni sugli asset on funzionali al progetto di sviluppo”, continua La Pegna. “L’ex centrale di Carpi è già stata trasformata in un moderno polo logistico, mentre per i siti a carbone che dovranno essere dismessi entro il 2025 l’obiettivo è dar vita a poli energetici integrati in cui convivano rinnovabili, sistemi di accumulo e impianti gas”.
La società ha inoltre dato vita ad Enel Logistics, società che opera in Italia per il recupero e la valorizzazione di aree e strutture esistenti all’interno di siti industriali del gruppo, situati nelle vicinanze di luoghi strategici come porti, aeroporti e interporti, da riconvertire a depositi doganali per la logistica, la movimentazione e lo stoccaggio di merci. “L’obiettivo è attirare nuovi flussi di merci in Italia e al contempo intercettare parte di quei flussi che oggi transitano nel Mediterraneo e che, per mancanza di infrastrutture, proseguono verso il Nord Europa”, specifica La Pegna.
Cosa accadrà invece alle centrali a carbone di La Spezia, Fusina, Brindisi e Civitavecchia? “ A luglio 2020 abbiamo lanciato quattro concorsi, ‘Nuovi spazi per l’energia’, chiedendo ad architetti e designer di disegnare il nuovo volto delle quattro centrali. Ai partecipanti è stato chiesto di progettare nuovi poli energetici in cui convivranno fonti rinnovabili (solare fotovoltaico), batterie per l’accumulo di energia e, nella misura strettamente necessaria al sistema elettrico nazionale, impianti a gas ad altissima efficienza sempre più integrati con l’ambiente circostante, grazie a soluzioni che ridurranno l’impatto paesaggistico disegnando un’idea nuova e aperta di centrale elettrica, prevedendo anche degli spazi a disposizione delle comunità locali”, continua il responsabile di Enel. “I concorsi sono portati avanti in collaborazione con le Università di Genova, lo Iuav di Venezia, della Tuscia e del Salento”. Sono stati circa 350 tra studi di architettura e professionisti ad aver manifestato interesse per i concorsi, per i quali è stata favorita la partecipazione di giovani talenti. I progetti proposti sono stati valutati sulla base dei criteri e principi del bando e da una commissione formata da rappresentanti del gruppo e istituzioni e università dei territori coinvolti. Al momento sono stati aggiudicati i concorsi di Fusina, Civitavecchia e Brindisi.
Piuttosto emblematica è invece la situazione della centrale di Monfalcone in provincia di Gorizia e ubicata lungo la sponda orientale del canale Valentinis, e che sorge su un’area di circa 30 ettari, occupando un terzo della banchina del porto. Da circa un anno produce al minimo e la chiusura è prevista entro il 2025. La proprietà A2A ha proposto di convertire il sito in una centrale di 850 MW alimentata a gas e lo scorso fine settembre i ministeri della Transizione ecologica e quello della Cultura hanno dato il via libera al progetto.
All’idea di conversione si è strenuamente opposta l’amministrazione comunale che critica il progetto: “La realizzazione di un nuovo impianto di generazione a gas a Monfalcone trova convenienza solamente per il meccanismo del capacity market che, mettendo a disposizione una cifra di 900 milioni, praticamente doppia del valore dell’investimento, consente alla società una vantaggiosa operazione finanziaria, pagata dalla città al prezzo sociale di una produzione di CO2 triplicata”, spiega il sindaco Anna Maria Cisint in una nota dello scorso 4 ottobre.
Secondo il think tank Ecco, si tratta di un’area che ha già pagato a caro prezzo, anche sulla salute e sulla qualità dell’aria, la presenza di una centrale a carbone, e che oggi potrebbe riscattarsi con una “giusta transizione”, ma che invece non solo rischia di non avvantaggiarsi delle politiche di uscita dal carbone, ma di trovarsi una centrale molto più grande che quando accesa emetterebbe emissioni dannose paragonabili a quelle della precedente. C’è poi il nodo occupazione: una centrale di queste dimensioni prevede l’impiego di 30 persone rispetto alle attuali 130. Invece il progetto del Comune avrebbe un indotto di oltre 4mila unità solo prevedendo lo spostamento del 10 per cento del traffico crociere di Venezia, e senza calcolare tutte le ricadute positive sul turismo.”Le prospettive di occupazione sono nei territori non sul gas. Monfalcone ha detto no, perché vorremmo vedere attivata la capacità di crescita locale”, conclude Matteo Leonardi di Ecco. “Se non lo si fa lì, dove dovremmo farlo?”.
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