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Cartier-Bresson, l’occhio del secolo in mostra a Genova
È altamente probabile che a chiunque di noi sia capitato di imbattersi inconsapevolmente in uno o più scatti di Henri Cartier-Bresson e, pur senza avere ancora contezza dell’autore, scorgere subito in essi un’atmosfera di familiarità e al tempo stesso di ferreo rigore. Il destino di un’opera fotografica davvero incisiva e duratura è infatti esattamente questo:
È altamente probabile che a chiunque di noi sia capitato di imbattersi inconsapevolmente in uno o più scatti di Henri Cartier-Bresson e, pur senza avere ancora contezza dell’autore, scorgere subito in essi un’atmosfera di familiarità e al tempo stesso di ferreo rigore.
Il destino di un’opera fotografica davvero incisiva e duratura è infatti esattamente questo: diventare subito icastica, cioè paradigmatica, immediatamente inconfondibile e capace di imporsi con tale studiata naturalezza al nostro immaginario collettivo da suscitare nell’osservatore l’impressione di conoscerla da sempre.
Nel caso di Cartier-Bresson il fenomeno in questione assume proporzioni davvero eclatanti se consideriamo che all’autore, indubitabilmente assurto al rango di artista e peraltro passato alla storia anche come padre del fotogiornalismo, furono attribuite appunto le definizioni di “occhio del secolo” e “occhio assoluto”, ovvero di testimone visivo per eccellenza degli eventi epocali del Novecento.
Non stupisce dunque che i suoi 140 scatti, originariamente selezionati dall’amico editore Robert Delpire ed esposti fino all’11 giugno nell’ambito della mostra curata da Denis Curti alla Loggia degli Abati del Palazzo Ducale di Genova, siano stati rubricati sotto il semplice titolo di Henri Cartier-Bresson fotografo. Come a voler dire: il fotografo per antonomasia o la quintessenza della fotografia.
Dalla Parigi di Jean Renoir alla fondazione dell’agenzia Magnum
Primogenito di cinque figli, Henri Cartier-Bresson (1908-2004) nasce a Chanteloup-en Brie, non lontano dalla capitale francese, in un ambiente familiare benestante ed alto-borghese ma contraddistinto da una spiccata sobrietà di gusti ed abitudini.
Rivela fin da subito un’evidente predisposizione verso la letteratura e le arti, apprende le prime nozioni di pittura da uno zio artista, studia letteratura inglese a Cambridge e cinematografia a New York, per poi lavorare come assistente del rinomato cineasta Jean Renoir.
La folgorazione per la fotografia affiora quasi per caso, nel contesto delle sperimentazioni giovanili e degli instancabili viaggi che lo conducono in Africa (luogo in cui contrarrà la malaria) e nel resto del mondo, dove comincia a realizzare reportage fotografici, a venderli e a pubblicarli sui principali periodici dell’epoca.
Nel corso della Seconda guerra mondiale vive la drammatica esperienza della detenzione in un campo di prigionia nazista da cui riuscirà ad evadere dopo circa tre anni, documentando poi attraverso le sue immagini il periodo dell’occupazione tedesca e la successiva liberazione della Francia.
Dopo l’impegno politico attivo in favore della Resistenza e del sostegno ai prigionieri di guerra ricercati e deportati, parteciperà all’allestimento della mostra che il Moma di New York aveva progettato di dedicargli a mo’ di omaggio postumo credendolo erroneamente caduto in guerra e nel 1947 fonderà, insieme a Robert Capa, David Chim Seymour, George Rodger e William Vandivert, la cooperativa Magnum photos destinata a divenire una delle principali agenzie fotografiche del mondo.
Prima di decidere di abbandonare la Magnum per insanabili divergenze con i colleghi, Cartier-Bresson firma alcuni dei suoi più leggendari scatti, come quelli relativi al funerale di Gandhi o all’avanzata dell’Armata rossa a Pechino.
Il “qui e ora” della disciplina mentale e fotografica
Un tratto tipico e meravigliosamente inattuale della tecnica elaborata da Cartier-Bresson consiste nell’inflessibile astensione da ogni pratica di fotoritocco o post-produzione del materiale fotografico: nessuna modifica postuma delle inquadrature, drastica e inappellabile scrematura tra le immagini da pubblicare e quelle da scartare, fedeltà massima all’istante vissuto.
“Per ‘dare un senso’ al mondo, bisogna sentirsi coinvolti in ciò che si inquadra nel mirino – sosteneva infatti il celebre fotografo –. Tale atteggiamento richiede concentrazione, disciplina mentale, sensibilità e un senso della geometria. Solo tramite un utilizzo minimale dei mezzi si può arrivare alla semplicità di espressione”.
Lo scatto diventa allora la cristallizzazione dello sguardo, lo strumento che cattura e sintetizza con sapiente densità il “qui e ora” in cui si è consumato l’impatto tra immaginazione e realtà.
In un mondo che moltiplica ed esalta le potenzialità illusionistiche e manipolatorie della tecnica fotografica, l’asciuttezza adamantina di Cartier-Bresson, con il suo peculiare connubio tra severità ed effusione poetica, rappresenta, oggi ancor più di ieri, una toccante lezione di stile.
Informazioni pratiche
La mostra è visitabile da martedì a domenica (ore 10-19, ma la biglietteria chiude un’ora prima), con apertura straordinaria prevista per il 1 maggio.
Il biglietto con formula “open” costa 12 euro, l’intero normale 10 euro, il ridotto 8 euro. Ulteriori riduzioni fino a 3 e 5 euro sono possibili per giovani e scuole, e sono disponibili formule cumulative che includono l’accesso all’altra mostra di Elliott Erwitt Kolor.
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