Numerose ong hanno sottolineato la situazione drammatica della popolazione palestinese a Gaza, chiedendo a Israele di rispettare il diritto umanitario.
La Libia non è un “porto sicuro”: perché la sentenza della Cassazione è storica
Con una sentenza storica, la Cassazione conferma la condanna per il comandante italiano che ha consegnato 101 migranti alla Libia.
La Libia non è un “porto sicuro” e riconsegnare i migranti alle autorità libiche è un reato. Così ha stabilito la Corte di Cassazione, pronunciandosi sul caso della nave “Asso 28”, un rimorchiatore italiano che nel 2018 ha soccorso 101 migranti nel mar Mediterraneo e li ha poi riportati nelle mani della Guardia costiera libica, senza seguire le procedure di soccorso previste.
Inoltre, la Corte ha evidenziato che il comandante ha trascurato di identificare i migranti, di valutare le loro condizioni di salute e di accertare la loro volontà di chiedere asilo, violando i diritti fondamentali delle persone soccorse.
La decisione di consegnare i migranti alle autorità libiche è stata definita come un atto illegale, poiché la Libia è considerata un luogo pericoloso, con rischi di trattamenti inumani o degradanti nei centri di detenzione. La sentenza, definitiva, segna un importante passo avanti nella protezione dei diritti umani dei migranti nel Mediterraneo e pone delle chiare linee guida per le future operazioni di soccorso e salvataggio in mare. Vediamo perché.
I fatti che hanno portato alla sentenza della Cassazione
La vicenda oggetto del procedimento è avvenuta il 30 luglio 2018. La Asso 28, rimorchiatore della società armatrice “Augusta Offshore” – che opera per conto della società petrolifera “Mellitah Oil & Gas”, di cui l’italiana Eni è socia al 50 per cento, mentre l’altra metà appartiene alla National oil corporation (Noc), la compagnia petrolifera nazionale della Libia – è stata allertata da personale della piattaforma della presenza di un gommone con 101 persone migranti in acque internazionali, tra cui donne incinte e bambini. Ma invece di condurli in salvo sulla piattaforma, la Asso 28, dopo aver calato a bordo dell’imbarcazione un presunto funzionario della dogana libico, ha riportato i migranti in Libia.
Il processo, avviato a seguito della presentazione di un esposto da parte della società civile, ha visto prima la sentenza di primo grado da parte del tribunale di Napoli, il 13 ottobre 2021, e poi a una di secondo grado della Corte d’Appello di Napoli, il 10 novembre 2022. In entrambe, il capitano del rimorchiatore Asso 28 è stato condannato per aver riportato i migranti in Libia. L’11 ottobre 2023 è arrivata la condanna definitiva della Corte di Cassazione (ma le motivazioni sono state diffuse pubblicamente solo di recente) riconoscendo al capitano “i reati di abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci, e di sbarco e abbandono arbitrario di persone”. Nella sentenza si legge anche che “l’imputato prestava immediato soccorso ai migranti, tra i quali erano presenti donne in gravidanza e minori di anni quattordici, omettendo di comunicare nella immediatezza, prima di iniziare le procedure di soccorso, ai centri di coordinamento e soccorso competenti, l’avvistamento e l’avvenuta presa in carico delle persone, agendo in violazione delle procedure previste per le operazioni di soccorso”. Inoltre ometteva “di identificare i migranti, di assumere le informazioni in ordine alla loro provenienza e nazionalità, sulle loro condizioni di salute, di sottoporli a visita medica, di accertare la loro volontà di chiedere asilo, nonché di accertare se i minori fossero accompagnati o soli”.
Quella della Cassazione è una buona sentenza?
Finora la cronaca. Ma cosa rappresenta la sentenza della Cassazione per il futuro dei migranti in mare e cosa invece non è stato approfondito in fase processuale? LifeGate lo ha chiesto a Piergiorgio Weiss e Ettore Zanoni, avvocati difensori di Asgi, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, che si è costituita parte civile nel processo contro Asso 28.
“Che tipo di eco può dare questa sentenza? Fondamentalmente ribadisce – se ce ne fosse stato bisogno, in quanto già sostenuto da norme internazionali e nazionali – e leggo dalla sentenza:
la necessità di verificare in concreto la sicurezza dello stato di destinazione a fronte di situazioni emergenziali che lascino presumere che non vengano effettivamente garantiti i diritti umani dei naufraghi.
Cioè, il capitano di una nave non può più permettersi dopo questa sentenza di non informarsi sullo stato del luogo di destinazione presso il quale sbarca chi trae a bordo. Cosa che in questo caso, il capitano non ha fatto”, spiegano gli avvocati.
Si tratta, quindi, di una buona sentenza, in quanto ha anche il pregio di avere una grossa capacità ricostruttiva di tutto l’impianto normativo, quindi di mettere un po’ di ordine nelle regole. Per gli avvocati Weiss e Zanoni restano però due aspetti critici. “Primo, hanno contestato l’abbandono di persona incapace per cinque minori e cinque donne incinte. Ma viene da domandarsi, se non ci fossero state donne incinte o minori, ma solo persone adulte, davvero non si sarebbe potuti giungere ugualmente ad una condanna? A noi pare infatti che l’incapacità di provvedere a se stessi da parte di naufraghi da poco fuggiti da un paese come la Libia, in cui i migranti vengono rinchiusi in campi di detenzione e sottoposti a torture, non dipenda necessariamente dall’età o dalla condizione fisica, ma dal fatto di trovarsi in una condizione di totale privazione di mezzi economici, di sostentamento e di possibilità di vedere tutelati i diritti fondamentali. Il secondo aspetto riguarda la Sar, cioè l’area di ricerca e soccorso (Search and rescue, nda): si tratta di aree del mare (o di terra, ma in questo caso parliamo di mare, nda) che gli stati si sono spartite per decidere chi interviene per primo, indipendenti dai confini marittimi territoriali. In questo caso, le sentenze insistono molto sul fatto che la Libia non è uno stato unitario e che pertanto dietro quella Sar non c’è uno stato organizzato, in grado di garantire il coordinamento delle operazioni di soccorso. Il che è senz’altro vero, ma ciò non toglie che, anche qualora l’organizzazione Sar libica funzionasse alla perfezione, rimarrebbe a nostro avviso l’obbligo per il capitano della nave soccorritrice di verificare, concretamente, che il luogo di sbarco rappresenti un porto sicuro in cui siano tutelati i loro diritti fondamentali”.
Che la Libia non sia per niente un luogo sicuro lo ha ammesso anche il capitano, quando ha detto, durante il processo, di non essere sceso dalla piattaforma perché a conoscenza dei rischi che poteva correre mettendo piede su suolo libico. Insomma, chi ha esperienza lo sa: dalla Libia bisogna stare alla larga.
Ma la responsabilità è solo di una persona sola?
Torniamo all’inizio del processo, quello che si è concluso al tribunale di Napoli con la condanna del solo capitano. Perché a dire il vero, oltre al capitano della Asso 28, c’era anche un altro imputato. Infatti, nel primo grado di giudizio le imputazioni non riguardavano solo lo sbarco arbitrario e l’abbandono di minore ma anche l’abuso di ufficio. Per quest’ultimo reato è intervenuta la sentenza assolutoria a carico di un secondo soggetto il cui ruolo – si apprende dalle carte – era quello di coordinare la comunicazione tra il capitano della Asso 28, in mare, e la società responsabile, a terra. Questo secondo soggetto (tecnicamente definito come designed person ashore, la persona designata a terra) è stata assolta, in quanto avrebbe “subìto” la decisione del capitano di recarsi in Libia.
Questo è un passaggio importante, fanno notare i due avvocati, che si unisce alla richiesta di rito abbreviato da parte del capitano della Asso 28. “Il rito abbreviato è una scelta insindacabile dell’imputato ma esclude la presenza del responsabile civile. Perché se è vero che il capitano è colpevole di aver riportato i migranti in Libia, è altrettanto verosimile che lo abbia fatto quantomeno con il consenso del personale della piattaforma”. A questo proposito, la società offshore Augusta è collegata all’Eni, che non è mai intervenuta spiegando la sua posizione.
Un fatto che implica ancora un’altra domanda: quale perdita avrebbero subito il capitano e i suoi responsabili nel portare i migranti in Italia, invece che in Libia, come voleva la procedura corretta? Entriamo nel regno delle congetture, però è significativo chiederselo: “È possibile supporre che la nave sarebbe rimasta ferma al porto per qualche giorno. Questo significa perdere giorni di lavoro e rimetterci del carburante”, spiegano gli avvocati. E invece, l’imputato ha spiegato che la nave sarebbe dovuta andare in Libia proprio per una consegna, e che quindi avrebbero approfittato di quel viaggio programmato per riaccompagnare i migranti in Nordafrica. Una giustificazione banale ma intanto il tribunale di Napoli ha deciso di non indagare gli interessi (eventualmente di natura economica) dietro le scelte del capitano. Poteva essere interessante ascoltare la voce dei protagonisti di questo rimpatrio forzato, ovvero i migranti, ma a una donna – che è riuscita a tornare in Italia con un secondo viaggio – non è stato concesso di costituirsi parte civile poiché, secondo il tribunale, non aveva presentato sufficienti prove per dimostrare che facesse parte del gruppo di migranti a bordo di quel gommone.
Quale futuro per le prossime sentenze
Torniamo alla sentenza della Cassazione: questa segna un passo decisivo per i prossimi naufragi, poiché è molto probabile che altri non si prendano più la briga di abbandonare i migranti conoscendo cosa è capitato al capitano della Asso 28. Questo fatto implica un’altra domanda, l’ennesima: se l’ordine fosse giunto da un organo strutturato, la capitaneria di porto per esempio, e quindi il capitano avesse rispettato la forma, avremmo oggi la stessa condanna? Per questo è interessante assistere al caso parallelo della Asso 29, altra piattaforma della Augusta: si tratta di un caso civile – non penale come quello che riguarda la sentenza della Asso 28 – ma dove l’ordine di riportare i migranti in Libia è arrivato dal Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto di Roma, che a sua volta dipende dal ministero della Difesa. La denuncia, infatti, chiede conto al governo di rispondere di abbandono di migranti. La risposta è attesa dal tribunale di Roma.
La sentenza della Corte di Cassazione sembra dire che il luogo sicuro lo deve verificare chi salva i migranti, non è sufficiente rispettare l’ordine giunto dall’alto. E una cosa è certa: la Libia non può essere considerata “porto sicuro”, per cui nessun altro può essere rispedito lì. Questo crea un cortocircuito con i tentativi del governo italiano attuale di imporre simili procedure alle organizzazioni umanitarie, spesso sanzionate per il rifiuto di cooperare con la guardia costiera libica. Guardia che, vale la pena ricordarlo, è finanziata e addestrata dall’Italia.
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