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La Cina progetta una centrale idroelettrica enorme su un fiume sacro per il Tibet
La Cina vuole costruire una diga e la centrale idroelettrica più grande del mondo sul principale fiume del Tibet, che i buddhisti considerano sacro.
La costruzione di una diga sul fiume Yarlung Tsangpo, in Tibet, è stata annunciata dalla Cina. La diga sarà accompagnata da un’enorme centrale idroelettrica, la più grande del mondo. Un progetto, quello di Pechino, che ha già suscitato diverse critiche da parte della provincia autonoma del Tibet, per il quale il fiume è sacro.
Per il buddhismo tibetano, infatti, che è la principale religione dell’area e la cui guida spirituale è l’attuale Dalai Lama Tenzin Gyatso, il fiume Yarlung Tsangpo rappresenta il corpo della divinità Dorje Phagmo, la più alta incarnazione femminile della cultura tibetana. Costruirci una diga è quindi considerato un atto sacrilego. Alle rimostranze del Tibet, inoltre, si sono aggiunte quelle dell’India, dove il fiume prende il nome di Brahmaputra.
La Cina verso la carbon neutrality entro il 2060
Lo Yarlung Tsangpo è il fiume più lungo del Tibet. Nasce dal ghiacciaio Angsi, a circa 4.700 metri di altitudine. È lungo 2.840 chilometri ed è il fiume più alto del mondo, tanto da essere soprannominato l’Everest dei fiumi. Non è l’unico record: lungo il suo corso, infatti, si sono venuti a creare spettacolari canyon, le cui gole sono considerate le più profonde del mondo. L’area si chiama Yarlung Tsangpo grand canyon e la Cina, nel 2000, l’ha dichiarata riserva naturale.
Nonostante l’importanza che riveste questo fiume, le dimensioni della centrale idroelettrica nella gola di Tsongpo – capace di generare 60 gigawatt di energia elettrica – supererebbero quelle dell’attuale centrale idroelettrica più grande al mondo, che si trova sempre in Cina, sotto la diga delle Tre Gole e che sfrutta le acque del fiume Azzurro.
Diga e impianto idroelettrico sul Yarlung Tsangpo rientrano nell’ambizioso piano della Cina per raggiungere la carbon neutrality entro il 2060, come annunciato dal governo cinese stesso, e quindi per diventare sempre meno dipendenti dalle centrali a carbone (di cui la Cina è il maggior produttore mondiale). Ma India e Tibet sono fortemente contrarie alla realizzazione di questo progetto.
Ricollocamenti forzati e danni all’agricoltura
Gli altri paesi asiatici temono gli impatti sul territorio che un simile progetto possa generare, tra cui migrazione forzata delle popolazioni locali e devastazione dell’ecosistema fluviale. Inoltre, l’India teme che la costruzione di una diga così grossa possa ridurre il flusso dell’acqua del Brahmaputra, fondamentale per l’agricoltura dei territori a valle sia nei periodi più asciutti sia perché il fiume rappresenta la principale fonte di limo per i terreni, limo che potrebbe essere trattenuto dalla diga.
Più in generale, le dighe cinesi non godono di buona reputazione: sul fiume Mekong ne sono state costruite undici, distruggendo l’ecosistema fluviale, con danni irreparabili alla fauna acquatica e arrecando ingenti danni all’agricoltura e di conseguenza all’economia di tutta la popolazione che si affaccia sul corso. Inoltre, nel caso delle Tre gole, il governo cinese ha dovuto ricollocare 1,3 milioni di persone nei 17 anni che sono occorsi per completare la diga. Un costo enorme, sia in termini economici sia in termini umani, in quanto le comunità locali sono state spostate in grandi città, senza essere accompagnate nel processo di integrazione.
L’era delle grandi dighe sta finendo
Il Tibet ha circa 200 gigawattora di risorse idriche, pari al 30 per cento dell’attuale approvvigionamento della Cina. Ma la centrale idroelettrica di cui stiamo parlando non è l’unico progetto che interessa il Yarlung Tsangpo: dal 1998 a oggi, infatti, sono dieci le centrali idroelettriche realizzate per sfruttare il fiume, di cui sei si trovano in territorio cinese e quattro in quello indiano (nessuna centrale invece si trova in Bangladesh, dove il fiume sfocia). E più di dieci sono i progetti proposti per il futuro.
A preoccupare, però, è anche l’instabilità di un terreno già fragile: il 7 febbraio scorso, sulle montagne Uttarakhand, in India, le inondazioni hanno distrutto due centrali idroelettriche e le rispettive dighe. Tra le cause di questo evento estremo – che ha causato più di 30 morti – ci sono il riscaldamento globale e l’instabilità idrogeologica dell’Himalaya. Non è da escludere, quindi, che le nuove infrastrutture peggiorino la situazione.
Secondo molti, clima che cambia e competitività delle fonti rinnovabili (soprattutto del fotovoltaico) potrebbero mettere fine ai progetti di mega-dighe. Ma c’è anche un altro motivo per cui questi progetti sono diventati troppo ‘ingombranti’ ed è proprio la mancanza di spazio: le posizioni economicamente più vantaggiose, perché più semplici da raggiungere, sono già state quasi tutte occupate. Al contrario, c’è molto spazio per piccole centrali, fino a 3 gigawatt. Così, l’era delle grandi dighe, iniziata negli anni cinquanta del novecento e sviluppatasi con il piano infrastrutturale e strategico lanciato da Pechino nel 2013 – il Belt and Road Initiative – è destinata presto a esaurirsi.
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