La centrale termoelettrica di Monfalcone sarà smantellata. Ma Legambiente critica il progetto di riconversione: “È in linea con la tradizione fossile”.
- La storica centrale termoelettrica a carbone di Monfalcone, in esercizio di più di cinquant’anni, chiude e si prepara a essere smantellata.
- Sarà sostituita da un nuovo impianto a ciclo combinato alimentato a gas metano, da miscelare successivamente con l’idrogeno.
- Legambiente si oppone al progetto di A2A, accusandolo di essere ancorato ai combustibili fossili.
A Monfalcone, storico polo industriale in provincia di Gorizia, c’è un quartiere ribattezzato Rione Enel. Prende il nome dall’ex-proprietaria della centrale termoelettrica a carbone, estesa su circa trenta ettari, in esercizio da più di cinquant’anni. L’11 aprile 2024 un provvedimento del ministero dell’Ambiente ha formalizzato lo stop ai due gruppi di produzione. Si chiude un capitolo, dunque, e se ne apre un altro, con un nuovo impianto a ciclo combinato. Ma i gruppi ambientalisti locali, capeggiati da Legambiente, sostengono che questa riconversione abbia ben poco di ecologico.
La storia della centrale termoelettrica di Monfalcone
La centrale termoelettrica di Monfalcone è alimentata da due gruppi a carbone: il primo ha una potenza elettrica nominale di 165 megawatt ed è in esercizio dal 1965, il secondo è di 171 MW ed è entrato in funzione nel 1970. Un tempo c’erano anche due gruppi a olio combustibile, poi dismessi negli anni Novanta. Dopo la fine del monopolio di Enel, la centrale è passata in diverse mani e attualmente è di proprietà di A2A.
Il governo italiano, però, ha promesso di chiudere entro il 2025 tutte le centrali alimentate a carbone, la fonte energetica più dannosa e obsoleta. La centrale è stata dunque fermata, salvo poi essere riaccesa nella primavera del 2022, nel pieno della crisi energetica innescata dallo scoppio della guerra in Ucraina. Ha funzionato fino al 31 marzo 2023 ma, in futuro, non produrrà più energia da carbone. “Si tratta di un risultato di straordinaria importanza che è la dimostrazione della serietà dell’impegno che abbiamo assunto verso la nostra comunità per rimuovere una fonte che ha inciso pesantemente sull’inquinamento del nostro territorio e sulla salute dei cittadini”, commenta con entusiasmo la sindaca di Monfalcone, Anna Maria Cisint.
Quale sarà il futuro della centrale di Monfalcone
Entro la fine di giugno, il gestore dell’infrastruttura trasmetterà al ministero il programma operativo per fermare, pulire e mettere in sicurezza impianti, apparecchiature e stoccaggi. Dopodiché, l’impianto verrà smantellato e ne verrà costruito uno nuovo. Sarà un impianto a ciclo combinato che verrà alimentato a gas metano, che arriverà attraverso un gasdotto; metano che verrà poi miscelato all’idrogeno fino a una percentuale del 30 per cento. La sua potenza complessiva sarà di circa 850 megawatt e il rendimento del 63 per cento. Un progetto da 500 milioni di euro che, secondo la documentazione presentata da A2A, darà lavoro direttamente a una trentina di persone e indirettamente a un centinaio.
Nel settembre 2020, quando A2A aveva presentato il progetto, la stessa sindaca Cisint aveva reagito con stizza: “Ad A2A dico che è finito il tempo dei progetti calati dall’alto e che il nostro territorio non può più essere considerato da nessuno come terra di conquista a proprio uso e consumo”. Con il passare del tempo, però, dei previsti ricorsi al Tar non si è saputo più nulla. Anche i sindacati hanno dato il loro appoggio al piano di A2A, anche per scongiurare una chiusura che ritenevano catastrofica in termini di occupazione.
Perché Legambiente si oppone alla riconversione
Chi invece ribadisce la propria ferma opposizione alla riconversione della centrale è l’organizzazione ambientalista Legambiente. “Il fatto che sia idrogeno verde è uno specchietto per le allodole. Per ora si parla solo della possibilità di addizionare il gas naturale con un 30 per cento di idrogeno verde, ma è un’ipotesi campata per aria”, spiega a LifeGate Michele Tonzar, alla guida di Legambiente Monfalcone. “Qui si parla di produrre energie rinnovabili, per produrre idrogeno da bruciare, a sua volta, per ricavarne energia. L’idrogeno avrà un senso in futuro, quando e se ce ne sarà disponibilità (e speriamo che avvenga), per decarbonizzare settori hard to abate come acciaierie e vetrerie. Questo è il senso dell’utilizzo dell’idrogeno, non certo quello di bruciarlo in una centrale termoelettrica”.
Negli anni scorsi, sottolinea, Legambiente aveva proposto un tavolo di lavoro regionale per ragionare su una riconversione della centrale che fosse in linea con la decarbonizzazione: si parlava di creare un polo di innovazione per le energie rinnovabili, di sviluppare il retroporto e la nautica minore, di istituire un hub per l’economia circolare con attività legate alla produzione e al recupero di batterie per autotrazione. “Le possibilità ci sono, ma bisogna avere la lungimiranza di trovarle”, continua Tonzar. “La precedente amministrazione regionale aveva istituito questo tavolo, ma l’amministrazione attuale l’ha sospeso. Anche il comune a lungo ha negato qualsiasi possibilità di continuare con il polo energetico, salvo poi cambiare idea in modo incomprensibile. La riconversione prevista a Monfalcone è in linea con la tradizione più nera, più retrograda, basata ancora sulle fonti fossili”.
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