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Il grande inganno delle certificazioni etiche nell’industria della moda
Nell’industria tessile c’è un’alta richiesta di certificazioni etiche, ma queste nascondono spesso un giro d’affari fatto di documenti falsificati e rapporti ingannevoli.
C’è un lato oscuro che si cela dietro alle nobili intenzioni dei marchi occidentali del settore moda – soprattutto i giganti della fast fashion – che fanno pressione sui propri fornitori, provenienti spesso da paesi dove la manodopera costa poco come India, Pakistan, Bangladesh, Vietnam, affinché adottino standard di lavoro sicuri, scongiurino gli incidenti, rispettino la dignità dei lavoratori, non ricorrano al lavoro minorile. Affinché ottengano cioè quelle certificazioni che etichettano un’azienda come etica e socialmente responsabile. Ciò che non vediamo è che spesso tutto questo si rivela solo un grande giro di affari che ha poco a cuore la tutela dei diritti dei lavoratori e che alimenta un business fatto di corruzione, menzogne e documenti falsificati.
Come si ottiene una certificazione etica
La certificazione etica ha cominciato a essere molto in auge nei primi anni del 2000, quando l’avvento del nuovo millennio ha portato con sé una ventata di novità e grandi cambiamenti. Si ispira all’auditing finanziario, cioè una valutazione indipendente che vincola i registri contabili ai principali criteri di contabilità generale, ed è uno strumento che attesta la responsabilità sociale delle aziende, ovvero individua eventuali abusi ai danni dei lavoratori nelle catene di fornitura globali e tenta di porvi rimedio.
Rispetto a quella finanziaria, la certificazione etica nel settore moda presenta due problemi: è volontaria ed è orientata al mercato. Cosa vuol dire? Che le aziende possono liberamente decidere di far ispezionare e far certificare come etici i propri stabilimenti, con grandi vantaggi competitivi rispetto alla concorrenza. Peccato che gli ispettori siano dipendenti di società poco regolamentate e a scopo di lucro, con un unico vero obiettivo: ottenere più contratti di revisione rispetto ai concorrenti. E quindi con la peccaminosa tendenza a scendere a compromessi con le stesse aziende che sono incaricati di certificare.
Nell’industria della moda, il protocollo considerato più severo ma “garanzia di ordini futuri” è lo standard SA8000, creato nel ’97 dalla Social accountability international, una ong con sede a New York che promuove i diritti dei lavoratori. Tra le società di certificazione con la storia più lunga c’è il Registro italiano navale, originariamente con il compito di classificare le navi mercantili e oggi tra i principali attori internazionali nel campo della responsabilità sociale delle aziende.
Un modello che non funziona come dovrebbe
Qual è il problema in tutto ciò? È un circolo vizioso che comincia qui da noi, in occidente, con i grandi brand di moda che si fregiano di collaborare con l’industria degli audit a testimonianza del loro impegno etico. Questo “costringe” i loro fornitori a ottenere le certificazioni per rimanere nel mercato, certificazioni che si ottengono a seguito di ispezioni pagate dalle stesse aziende che le subiscono. Capite bene che le società di revisione hanno scarso interesse a svolgere il loro compito come dovrebbero, ma anzi avranno la tendenza ad agevolare questo processo nella speranza che un domani altre fabbriche si rivolgano a loro per ottenere la certificazione. In pratica, più che certificare realmente, vendono un’esperienza di certificazione positiva. Con un’aggravante: i rapporti degli auditor spesso ingannevoli non sono accessibili ai lavoratori che avrebbero il compito di tutelare, che rimangono così all’oscuro delle violazioni eventualmente riscontrate nella fabbrica.
Ma c’è un altro livello di complessità che si aggiunge a questo scenario: i produttori che vogliono ottenere la certificazione quasi mai si rivolgono direttamente alle società di revisione. C’è un intermediario, un consulente esterno, una sorta di coach che li aiuta a prepararsi per l’ispezione, li mette in contatto con le società deputate e facilita l’intero processo. E sapete perché sono proprio gli intermediari ad avere il potere? Perché scelgono personalmente gli auditor a cui rivolgersi per l’ispezione nella fabbrica che stanno aiutando a certificare. Questo vuol dire che se i consulenti ritengono troppo severi gli ispettori di una determinata società, sono liberi di portare tutti i propri clienti da competitor più accondiscendenti. Il risultato è un quadro pittoresco in cui le stesse società di revisione, per procurarsi nuovi clienti, si ingraziano i consulenti pagando loro delle commissioni, che alle volte possono raggiungere il 10 per cento dei ricavi per ogni cliente procurato. In sostanza una manciata di intermediari tiene in piedi un sistema tale per cui le società di ispezione dipendono esattamente dalle aziende di cui dovrebbero giudicare l’attività con la massima serietà.
L’incendio nella Ali enterprises
Il fatto che le società certificatrici dipendano dai consulenti, e quindi dalle aziende stesse che dovrebbero certificare, fa sì che scendano a compromessi su tutte le norme pur di ottenere nuovi clienti. Documenti falsificati, registri di prove antincendio che riportano nomi di lavoratori neanche presenti quel giorno sul luogo di lavoro, giornate lavorative di otto ore quando la norma è dodici, cedolini degli stipendi non veritieri, dati sugli straordinari modificati: sono solo alcuni degli aspetti che gli ispettori “correggono” nei loro rapporti. Il rischio di disastro è dietro l’angolo.
E infatti l’incendio che l’11 settembre del 2012 è scoppiato in una fabbrica di abbigliamento a Karachi, in Pakistan, la Ali enterprises, ha causato la morte di oltre 250 operai a causa del mancato rispetto delle norme di sicurezza sul luogo di lavoro: finestre con le inferriate, uscite d’emergenza chiuse a chiave, estintori fuori uso, sistema di allarme antincendio guasto. Esattamente ciò che gli auditor, che poche settimane prima avevano ispezionato l’azienda dichiarandola sicura e conforme allo standard SA8000, avrebbero dovuto segnalare. Questo episodio è l’emblema di un sistema corrotto e difettoso in cui vengono valutate, più che le reali condizioni di un’azienda, le intenzioni dei suoi dirigenti, in cui i compromessi da accettare sono l’unica via per non condannare una fabbrica al fallimento, e in cui la trasparenza e il coinvolgimento dei lavoratori circa la violazione delle norme di sicurezza del loro luogo di lavoro sono solo una chimera.
Il ruolo dei grandi marchi occidentali
Ma ritorniamo un attimo al punto di partenza: i grandi marchi occidentali dell’industria moda fanno pressione sui propri fornitori affinché si certifichino come socialmente responsabili. Perché? Perché così i primi possono, a loro volta, affermare di approvvigionarsi solo ed esclusivamente da aziende certificate come etiche. Tuttavia, il volume degli ordini, i termini di consegna troppo ravvicinati, i prezzi costantemente al ribasso e la mancanza di garanzia sugli ordini, in un certo senso “condannano” molti fornitori al perdurare di certe violazioni. Soprattutto per quanto riguarda i salari e gli orari di lavoro. E negare a questi la certificazione significa impedire loro la crescita e di rendere stabile il giro d’affari. Finché i marchi si ostinano a non pagare sufficientemente le fabbriche da cui si riforniscono, difficilmente queste saranno in grado di rispettare i presunti requisiti degli standard. E ancora di più, finché non ci sarà un pieno coinvolgimento dei lavoratori stessi nelle ispezioni e nelle iniziative di monitoraggio con accordi vincolanti tra marchi e sindacati, tutta questa grande farsa continuerà ad essere una pura e semplice questione di affari.
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