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Chernobyl, Italia. Le storie di un’Italia solidale e accogliente nel libro di Stefania Divertito
Un’analisi del disastro nucleare di Chernobyl, arricchita dalle storie di chi ha trovato una seconda patria nel nostro paese. Tutto questo è Chernobyl Italia, l’ultimo libro di Stefania Divertito.
È universalmente riconosciuto come il più grave disastro nucleare della storia. Tutto è cambiato dal 26 aprile del 1986, quando l’esplosione nella centrale di Chernobyl scoperchiò il reattore numero 4. Tutto è cambiato non solo in questo angolo dell’Ucraina settentrionale, ma anche nel nostro paese, a partire da un deciso cambio di rotta nelle politiche energetiche e da una nuova stagione per i movimenti ambientalisti.
Ci racconta tutto questo la giornalista Stefania Divertito, autrice del libro Chernobyl Italia, edito da Sperling & Kupfer. Attraverso le storie dei bambini adottati dalla Sicilia alla Lombardia, il libro diventa un’interessante spaccato della società italiana del tempo. Di ciò che eravamo e di ciò che stiamo diventando.
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Nel suo libro racconta storie di bambini che si sono costruiti una nuova vita in Italia, e di italiani che gli hanno offerto una casa e una nuova famiglia. Quale di queste l’ha colpita maggiormente?
Sicuramente la storia di Ekaterina Zhukova: “figlia” di Chernobyl, cresciuta a Lucca da una famiglia italiana, dove veniva a curarsi ogni estate, e che ancora oggi porta dentro di sé l’anima italiana, oltre alla nostra lingua che parla egregiamente. Oggi Ekaterina è un’affermata ricercatrice europea, lavora all’università di Lundt e si occupa proprio di capire gli effetti dei traumi come quelli subiti da lei e dalla sua famiglia sulle generazioni future. Una bellissima apertura di cuore, da parte sua, dedicarsi al prossimo a partire proprio dalla sua esperienza.
All’epoca in Italia scattò una vera e propria gara di solidarietà. Oltre 500mila bambini, più della metà di quelli ospitati in Occidente, furono accolti nel nostro Paese. Una situazione difficile da immaginare oggi, considerando il clima che si respira.
Vero, così sembra. Siamo stati un Paese di cuori e case aperte, altro che porti chiusi. Ma io credo che lo siamo ancora. Fa parte del nostro dna. È la narrazione che facciamo del paese oggi che sottolinea solo alcuni aspetti e pian piano convince la maggioranza che quella visione sia univoca e condivisa. Io non ci credo. Sono consapevole che è una deriva che si avvicina pericolosamente, e credo che noi giornalisti abbiamo un enorme debito rispetto alla cronaca e alla verità che dobbiamo onorare il prima possibile.
A 34 anni di distanza, quali sono i principali dati che certificano gli effetti dell’esplosione in termini di contaminazione e di vite umane perdute?
Lavorare su Chernobyl dopo 34 anni mi ha posto di fronte a un dilemma, e più di uno a dire la verità. Il principale è stato la scelta dei dati più attendibili. Anzi, parliamo di “maggiore attendibilità” perché non esiste un’unica verità certificata, purtroppo. Molte ricerche sono in itinere e gli effetti delle radiazioni ancora da studiare.
Sicuramente il rapporto di Greenpeace è uno degli studi più completi e analitici esistenti oggi. Nel rapporto del Chernobyl Forum molte vittime non furono considerate “epidemiologicamente verificate”, e attestava tra le 65 e le 4mila le morti presunte. Il rapporto di Greenpeace, invece, parla di decessi compresi tra 100 mila e 270 mila.
Per stabilire l’esatta entità, ammesso che si possa farlo, occorrerebbe studiare le popolazioni raggruppandole in gruppi ben definiti: i lavoratori, i residenti, i bambini, chi ha mangiato cibo contaminato… ma molte informazioni sfuggono al nostro controllo. Ad esempio, solo da pochi anni sappiamo che gli animali da macellazione contaminati sono stati comunque usati per insaccati. Questo significa che migliaia persone, magari anche in zone distanti da Chernobyl, hanno mangiato carne radioattiva.
Di certo, e lo racconta con grande precisione nel libro, l’allarme scattò in ritardo peggiorando la situazione. Fatte le debite differenze, si può fare un parallelo con ciò che in questi giorni avviene con il coronavirus?
Fortunatamente, nonostante la Cina riesca a controllare la diffusione di informazioni, oggi siamo in una società tale che nascondere del tutto un’informazione così importante è quasi impossibile. In quei giorni non solo ricevemmo la notizia in ritardo, ma nessuno ci informava dell’evolversi della tragedia. E non si avevano fonti indipendenti: o ascoltavamo la voce di “mamma Russia” o degli americani che, inizialmente, avevano addirittura dichiarato di aver visto con i satelliti altri focolai di incendio. Fortunatamente, gli altri reattori non scoppiarono.
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La generazione dei quarantenni ricorda bene quei giorni concitati. I più giovani, invece, si sono potuti fare un’idea recentemente grazie a una serie televisiva di grande successo. Si tratta di un racconto utile per comprendere la vera portata del disastro, o solo di un’abile operazione commerciale?
Un racconto molto utile, molto ben fatto e sicuramente efficace. Io auspico fortemente che vengano prodotte altre serie tv su temi ambientali. È un mio piccolo sogno, poter contribuire a una rinascita della narrativa ambientale. Credo che sia uno strumento straordinariamente utile per comunicare ai più giovani, e anche a chi si interessa poco di ambiente, l’importanza di questi temi. È una fiction che forma nuove generazioni di cittadini.
In quel periodo in Italia erano attive quattro centrali nucleari. L’incidente ha segnato un punto di svolta per il movimento ambientalista e per le politiche energetiche del nostro paese. C’è però chi sostiene che sia stato un errore abbandonare il nucleare sulla scia emotiva di quanto avvenuto in Ucraina. Cosa ne pensa?
Non credo che abbiamo lasciato il nucleare solo sulla scia emotiva di Chernobyl, e, nel 2011, di Fukushima. Sicuramente i due incidenti crearono un effetto shock, ma l’Italia dibatteva da tempo sulla scelta nucleare. I sindacati e le associazioni ambientaliste stavano promuovendo un dibattito interno che certamente con l’evento traumatico prese vigore e si impose all’agenda politica. Resta il tema delle centrali nei territori confinanti su cui, ahimè, ben poco possiamo. Ma credo che come paese il nostro ruolo sia di imporci, a livello internazionale, soprattutto europeo, come fautori di energie rinnovabili, spingere questa tecnologia dentro e fuori il parlamento europeo, e soprattutto essere, come cittadini, consapevoli dei rischi e, forti di ciò, operare delle scelte: dalla nostra bolletta energetica ai rappresentanti politici da votare al parlamento europeo. È un processo lento ma sento di essere ottimista.
In un passaggio del libro sostiene che “Chernobyl non è una storia del passato. È un racconto del presente che deve indurci a costruire un futuro diverso”. Ci spiega il significato di questa frase?
Chernobyl parla delle nostre scelte: energetiche, di accoglienza, di abnegazione. Parla del sacrificio di 600 mila uomini che hanno dato la vita per poter salvare il paese. Parla della nostra straordinaria capacità di accoglienza. E lo fa con un evento nel quale tutto quello che poteva andare storto, lo ha fatto. Non possiamo affidarci al caso o peggio, sfidare la natura, come quella notte accadde. E quante volte lo stiamo facendo oggi, con scelte individuali e collettive errate? Mi riferisco al nostro modo di vivere il pianeta, oggi, incuranti degli effetti delle nostre decisioni e dei nostri consumi. Ci leggo tanto, in quel 26 aprile di 34 anni fa. Tanto, che oggi può esserci di insegnamento.
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