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Cina, cosa si nasconde dietro al fenomeno dei cimiteri di biciclette
Uno spreco enorme di biciclette, risorse e opportunità. Sono le conseguenze della bolla cinese esplosa in nome della mobilità condivisa. Una sfida per il nostro futuro.
Si sa, le biciclette sono speciali, hanno un’anima, una storia e molto spesso addirittura un nome. Come i libri, i vestiti, i dischi, i quadri, sono oggetti con cui intratteniamo una relazione e di cui fatichiamo a liberarci. Per questo ci impressionano le immagini che da tempo arrivano dalla Cina con distese enormi di due ruote abbandonate in luoghi che – con un tocco di pathos – sono stati battezzati “cimiteri delle biciclette”.
Si tratta di vergognose discariche a cielo aperto in cui sono finiti migliaia di mezzi del bike sharing, prodotti e messi in strada in numero incontrollato ed esagerato rispetto ai bisogni delle persone. Quelle immagini sono uno schiaffo per chi ogni giorno dal basso, nel suo piccolo, cerca di fare la differenza pedalando. Ma non si tratta solo di una questione etica, c’è anche un discorso estetico legato a quelle foto.
Nei “cimiteri di biciclette” vediamo sepolta la poesia delle due ruote, lì finisce la “bellezza in bicicletta” schiacciata dalla mera speculazione. Un po’ come quando vediamo chilometri di vestiti ammassati sulle spiagge a causa della fast fashion o scaffali di libri mandati al macero: fa male sapere fino a che punto siamo arrivati e realizzare che la bicicletta usa e getta non appartiene a un immaginario distopico ma è ormai la realtà con cui dobbiamo fare i conti.
La bolla cinese del bike sharing a flusso libero
Basta un colpo d’occhio per notare che le bici ammucchiate si assomigliano, sono tutte di tre, quattro colori: solitamente arancio, blu, giallo. Sono state prodotte in serie e appartengono alle flotte del bike sharing che nel 2017 hanno invaso le strade dei centri urbani di molte città cinesi. Il progetto ha preso il via qualche anno prima a Pechino, dove in ambito universitario si sono messe a punto le prime bici destinate alla condivisione con flusso libero, dotate di un particolare lucchetto con apertura digitale, di gps e collegate con un’applicazione agli smartphone.
Niente stallo quindi, questa la novità: col telefono rintracci la bici più vicina per poi lasciarla dove vuoi, senza bisogno di ancorarla a una rastrelliera e senza quindi troppi permessi urbanistici o edilizi per l’installazione dei parcheggi. Questi nuovi sistemi di noleggio free floating sono considerati di quarta generazione e vengono anche detti “call a bike”. Il loro successo è stato immediato e le bici sono state celebrate in tutto il mondo come un traguardo dell’innovazione tecnologica del Dragone. Persino le Nazioni Unite nel dicembre del 2017 hanno conferito il premio Earth Guard (Business Excellence Award) a Mobike, per il contributo dato al cambiamento del trasporto pubblico in un percorso verso una maggiore sostenibilità con l’abbassamento delle emissioni di anidride carbonica.
Il business verde però si è trasformato rapidamente in un grande problema ecologico. Infatti, una cinquantina di società senza un quadro normativo di riferimento chiaro, si sono messe a produrre contemporaneamente questo tipo di mezzi, sfidandosi l’un l’altra per dominare il mercato. La bolla è esplosa velocemente e la stragrande maggioranza di queste società è fallita. È il caso per esempio di Bluegogo, nata nel 2014 e affermatasi ai tempi come la terza società più grande del paese, che ha dichiarato bancarotta nel novembre 2017.
Il risultato dell’esplosione della bolla? Un’infinità di biciclette affastellate caoticamente e illegalmente su strade e marciapiedi, finite ad ostacolare il passaggio e a deturpare il paesaggio. Parliamo di circa trenta milioni di biciclette destinate all’oblio, usurate, vandalizzate, rubate o rimaste inutilizzate. Non tutte a oggi sono state rimosse dalla strada e in gran parte sono “parcheggiate” nei cimiteri di biciclette, dopo esser state sequestrate dalla polizia. Stando alle notizie, il più grande “cimitero” si trova a Fujan, nel sudest del paese e ne contiene circa 200 mila.
Quanto costa smaltire una bici
Come leggiamo nell’articolo apparso sul canale instagram della BBC, secondo le autorità della città di Hangzhou, rimuovere una bicicletta dalla circolazione costa 9,6 yuan, ovvero circa 1,20 euro. China Recycling è solo una delle aziende che è arrivata in aiuto del paese, rimuovendo circa quattro milioni di cicli, riutilizzandone i materiali. Ci sono i telai in alluminio o acciaio, le parti elettroniche, le gomme “piene” difficili da smaltire.
Mobike si è impegnata nel recupero progettando per esempio arredi di design e usando la gomma per la pavimentazione di parchi giochi. Alcune (dieci mila veicoli) sono state ripristinate e donate a studenti in Myanmar, altre sono state portate in zone colpite da calamità naturali dove possono essere utili.
Un gruppo di ricercatori cinesi ha stimato l’impronta di carbonio di una bicicletta condivisa a 34,56 chilogrammi di CO2 nel corso della sua vita, il che significa che una bicicletta dovrebbe essere utilizzata per quasi due anni per portare un risparmio netto di carbonio. Per questo oggi si punta su bici più robuste e durevoli, badando più alla qualità che alla quantità.
Un servizio in crescita in tutto il mondo
Oggi in Cina le società che gestiscono i sistemi di bike sharing sono pochissime, si contano sulla punta delle dita. Inoltre, sono obbligate a lavorare in maniera più sostenibile, anche se continuiamo a parlare di colossi che producono e controllano gran parte delle flotte presenti sul globo. Tra queste ci sono Mobike – il più grande operatore al mondo del settore – e Ofo. Entrambe alle spalle hanno due giganti di internet, rispettivamente Tencent e Alibaba.
Dando uno sguardo alla lista internazionale stilata da wikipedia relativa ai sistemi di bike sharing, scopriamo che l’Italia si trova al secondo posto per il numero di sistemi attivi, dietro alla Spagna che occupa la prima posizione. Al terzo posto invece troviamo la Cina che però per numero di mezzi supera enormemente gli altri stati. Basti pensare che solo a Pechino, dopo il momento di bolla in cui si è arrivati a due milioni e mezzo di bici, se ne contano circa 800 mila.
Se il bike sharing di quarta generazione ha messo alla prova il mercato e per certi versi ci ha trovati impreparati all’uso condiviso e civile di questi mezzi, il sistema “classico”, ovvero con lo stallo, è ormai consolidato in moltissime città. Inutile dire che il bike sharing ha rivoluzionato la mobilità urbana riducendo gli spostamenti in auto, la congestione del traffico e l’inquinamento atmosferico e si è rivelato strategico durante la pandemia rispondendo ai diversi bisogni di pendolari, residenti e turisti.
Uno delle operazioni più riuscite è il CitiBike di New York lanciato nel 2013 e che nel 2015 ha registrato più di dieci milioni di corse. La corsa singola costa 3,50 dollari al viaggio, poco più del biglietto della metropolitana ed è possibile scegliere una bici elettrica, altra novità importante ormai diffusa nelle flotte.
Anche a Taiwan il sistema ha riscosso un ottimo successo grazie alla collaborazione con Giant, uno dei più grandi marchi mondiali di biciclette che ha partecipato alla gestione di YouBike. A Taipei, la capitale, nel 2020 si sono contati una media di 83 mila noleggi al giorno mentre è già partita la nuova era di Youbike 2.0 che prevede il passaggio da 400 a 1.200 stazioni in città.
Anche Vélib a Parigi è il servizio istituito dal comune con oltre venti mila biciclette e circa 1.800 stazioni, per una rete capillare e ben strutturata in tutta la città di Parigi e comuni limitrofi.
In Italia, il sistema più ampio è quello del comune di Milano, avviato nel 2008 e cresciuto nel tempo. Oggi BikeMi conta 325 stazioni distribuite nei punti nevralgici della città e 5.430 biciclette (4.280 biciclette a pedalata muscolare, 1.000 ebike e 150 bici a pedalata assistita con seggiolino per bambini). Qui le free floating sono arrivate nel 2017; al momento Mobike è ancora attiva mentre Ofo è stata costretta a ritirare i suoi mezzi nel 2019, per inottemperanze relative al pagamento del canone di concessione e per alcune non conformità delle bici. In quell’anno il comune ha dichiarato di aver prelevato dalle strada 372 mezzi abbandonati in soli tre mesi.
Biciclette in condivisione, una questione culturale
Clima, territorio pianeggiante e programmi per incentivare la mobilità attiva, sono alcuni elementi che rendono il bike sharing un servizio capace di fare la differenza negli spostamenti urbani. I sistemi si devono ben integrare con i trasporti esistenti: migliori sono le infrastrutture, maggiore è l’uso della bicicletta. Basti guardare ancora una volta a quanto accade in Germania o nei Paesi Bassi.
Inoltre, va tenuto a freno un mercato aggressivo che punta alla speculazione senza tener conto degli sprechi e del loro costo. Non può funzionare un sistema in cui risulta più conveniente produrre un nuovo mezzo piuttosto che ripararne uno.
Il bike sharing dovrebbe quindi essere l’occasione per comprendere che i veicoli in condivisione non sono “di nessuno” ma al contrario appartengono potenzialmente a tutti, sono pubblici e come “beni comuni” hanno un valore commerciale, oltre che ambientale e sociale.
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