Le soluzioni di smart home & building automation abilitano la transizione ecologica, come dimostra il Report di sostenibilità “Welcome to the Nice future”.
Cino Zucchi. Vorrei fare in architettura l’equivalente del pop sofisticato
Analogie e connessioni inaspettate tra architettura, letteratura, cinema e musica nel racconto di Cino Zucchi, architetto eclettico, visionario e vulcanico secondo cui il collasso ecologico è il problema centrale di questo millennio.
Autore di architetture innovative come il nuovo centro direzionale Nuvola Lavazza a Torino o la sede dell’azienda di outdoor Salewa a Bolzano, Cino Zucchi non si ripete mai e i progetti firmati dal suo studio Cza (Cino Zucchi architetti) sono spesso sorprendenti per l’uso sperimentale di materiali e tecniche costruttive, e coerentemente integrati nell’ambiente, il risultato di una continua ricerca espressiva e tecnologica. E il tema della sostenibilità è radicato da sempre nel suo modo di pensare e fare architettura.
Il suo è un posto di rilievo nel panorama dell’architettura internazionale contemporanea. Qual è la sua specificità e unicità rispetto ad altre famose archistar?
La parola “archistar” è stata di fatto inventata dai giornalisti; ho sentito (l’architetto) Frank Gehry insultarne uno per averlo chiamato così. Essa è però l’espressione di uno spostamento dell’attenzione mediatica dal risultato del nostro lavoro alla figura del suo autore. Non so se questo sia un bene: non abbiamo bisogno di sapere il nome dell’architetto di una cattedrale o di un palazzo per apprezzarne gli spazi e il ruolo nella città.
Spesso l’idea di “griffe architettonica” porta alla necessità di generare figure architettoniche molto riconoscibili e di ripeterle anche in contesti dove c’entrano poco. Senza ovviamente comparazioni di qualità – che non oserei mai fare –, piuttosto che ritornare ossessivamente sui propri stilemi e cavalli di battaglia, sento il mio modo di lavorare più vicino a quello di Stanley Kubrick – che ha diretto film del tutto diversi come Lolita, 2001 A Space Odissey, Clockwork Orange, Shining, Barry Lyndon – o a quello dei Beatles del cosiddetto White Album, un doppio LP dove canzoni come Cry Baby Cry, Happiness is a Warm Gun, Back in the USSR, Rocky Racoon, Sexy Sadie, Revolution n.9 spaziano da arrangiamenti country alla musica d’avanguardia.
Ogni suo progetto è una storia nuova e sperimentale. Da dove trae ispirazione per rinnovarsi continuamente esplorando nuovi territori espressivi?
La mia educazione universitaria è stata molto strana, muovendosi tra gli estremi della matematica e dell’intelligenza artificiale nei miei studi al Massachusetts institute of technology (Mit) fino agli studi di storia dell’architettura dopo il mio ritorno in Italia, che mi hanno portato persino a scrivere un libro erudito come “L’architettura dei cortili milanesi 1535-1706”.
Diceva Paul Valéry (poeta e filosofo): “Tutto quello che uno sa può servire in tutto quello che si fa. L’intelligenza è il servirsi di tutto”. E ancora: “Bisogna lavorare a più cose alla volta. È il rendimento migliore, l’una approfitta dell’altra, e ognuna è più se stessa, più pura; delle idee che vengono, si spedisce ciascuna dove è meglio al suo posto, poiché ci sono più posti che attendono”.
Talvolta stupisco le persone del mio studio per il carattere anomalo dei riferimenti che metto in campo per rispondere a un problema di natura spaziale. Per esempio, mi capita spesso di fare delle analogie tra architettura e musica. Nel mio iPod ci sono più di 75mila canzoni degli autori più svariati; proprio ieri mi è capitato di dire che vorrei fare in architettura l’equivalente del pop sofisticato di complessi come Belle and Sebastian o The New Pornographers.
Nonostante la mia mente segua percorsi e analogie talvolta inaspettate, penso che il progetto sia finito solo quando sia riuscito a trovare un carattere appropriato al luogo e al tema, anche se questo carattere non è tutto deducibile da una pura analisi. L’edificio D alla ex Junghans a Venezia con le sue finestre incorniciate di pietra bianca o la sede della Salewa a Bolzano con la sua silhouette “alpina” rivestita di alluminio forato di colore cangiante sono del tutto diversi tra loro dal punto di vista figurativo ma a mio parere ben centrati sul proprio tema di progetto; non a caso sono molto amati sia dai proprietari che dagli abitanti del quartiere e dal pubblico allargato.
Quali sono i materiali che sente più affini e che le permettono di esprimere al meglio nei suoi progetti la sua visione dell’architettura?
Non ho materiali che preferisco; come un poeta usa le parole solo nella loro combinazione fonica e di significato, così un architetto ha una palette di materiali dai diversi pesi, dai diversi colori e tessiture, aggregabili mediante tecnologie diverse, dove un intonaco fatto bene può diventare più prezioso di una pietra costosa.
Nella mostra Sempering curata da me e Luisa Collina in occasione della 21esima Triennale di Milano nel 2016 (il nome della mostra è il presente continuo del verbo inglese “to semper” che nell’architettura e nel design è un’azione costruttiva su un materiale o un componente che lascia una traccia formale significativa nel prodotto finale, ndr) abbiamo cercato di mettere in scena il rapporto tra i materiali, le tecniche tradizionali o innovative della loro trasformazione o aggregazione, le culture figurative che si formano nel tempo e il risultato finale.
Tra i tanti progetti di architettura che ha realizzato quali ama di più e perché?
C’è un racconto di Franz Kafka dal titolo”‘Elf Söhne” (Undici figli) dove un padre descrive in dettaglio il differente carattere dei propri undici figli, suggerendo come li ami tutti alla stessa maniera ma come abbia un rapporto diverso con ciascuno di essi. Mi piace affrontare ogni progetto con la mia esperienza ma senza pregiudizi; come i figli, talvolta quelli che danno maggiori problemi sono anche quelli ai quali ci affezioniamo maggiormente. L’intensità della sfida progettuale non coincide tuttavia sempre con la bellezza del risultato: ci sono progetti “belli e stupidi” e progetti “brutti e interessanti”.
In un’opera finita, la distanza di ciò che essa “è” e di ciò che “avrebbe voluto essere” non deve sentirsi, anche se il risultato finale è spesso l’esito di molte rinunce e compromessi. Da questo punto di vista, L’edificio D alla Junghans, il parco di San Donà di Piave (in provincia di Venezia), le torri di residenza convenzionata al Portello a Milano, e recentemente il magazzino automatizzato Pedrali (a Mornico al Serio, in provincia di Bergamo) e il grande rinnovo urbano della Nuvola Lavazza a Torino, sono opere ragionevolmente riuscite: come Isabelle Huppert, Morgan Freeman o Rita Levi Montalcini hanno quello che si dice un certo “physique du rôle”.
Chi sono stati i suoi mentori e i suoi maestri?
Domanda difficile, poiché come ho detto prima la mia formazione è molto eclettica: negli Usa ho avuto professori meravigliosi che mi hanno insegnato il rigore e la creatività dell’indagine scientifica. Tornato in Italia mi sono laureato con Emilio Battisti, adoro il pensiero e l’intelligenza di Pierluigi Nicolin, e ho lavorato qualche mese da Vittorio Gregotti prima di mettermi in proprio. Sui libri ho scoperto l’opera saggistica di Paul Valéry con cui ho sempre avuto una sorta di identificazione totale nonostante il mio spirito eclettico. Ho imparato molto dalle opere di Luigi Caccia Dominioni (al quale è dedicata la mia installazione all’ultima Biennale di Venezia) e Asnago e Vender (su questi ultimi ho pure scritto un libro), ma amo autori del tutto diversi come Gunnar Asplund, Arne Jacobsen, Bruno Taut, Louis Kahn, Josep Antoni Coderch, tutti angioletti svolazzanti sopra il mio tavolo da lavoro quando impugno una matita 6B.
Oggi è lei uno dei maestri di riferimento per i giovani. Quali sono i valori che ritiene più importanti da trasmettere alla nuova generazione di progettisti per fare del buon design e della buona architettura?
I valori fondamentali che cerco di trasmettere sono la curiosità e la capacità di non farsi imbrogliare dagli “esperti”; l’assunzione completa della responsabilità di tutte le conseguenze del nostro operare; il perfezionamento di un processo di esplorazione progettuale che sappia alternare in maniera veloce i momenti dedicati all’invenzione a quelli riservati alla scelta e selezione tra alternative diverse.
Samuel Beckett diceva “fail, fail again, fail better” (fallisci, fallisci ancora, fallisci meglio): l’errore e il ripensamento fanno parte del nostro operare e solo la riuscita finale è capace di dare ordine retroattivo al processo. Si dice sempre che il mondo va male ma non è vero. I miei studenti sono bravissimi, entusiasti e la mia tesi non prenderebbe un 19 al mio corso del terzo anno. Hanno solo bisogno di imparare a distinguere tra la fonte primaria di un pensiero e le sue mille clonazioni e deformazioni sulla rete.
La sostenibilità è oggi un tema centrale dell’architettura: quanto è importante per lei e quali sono i presupposti di base per progettare architetture sostenibili?
Il possibile collasso ambientale a opera dell’uomo è davvero il problema principale di questo millennio. La parola sostenibilità esprime un valore che tutti dovremmo condividere, anche se il suo uso è diventato oggi sempre più generico e ambiguo, fino a costituirsi come una medaglia di latta che molti si appuntano sul petto senza averne diritto o ragione. In realtà, mi sono iscritto al Mit nel 1975 proprio perché avevo letto il volume “The limits to growth” (I limiti dello sviluppo) scritto da un gruppo di suoi ricercatori, di fatto il primo documentato campanello d’allarme sull’insostenibilità del modello di crescita infinita.
Il mio interesse sul tema del risparmio energetico degli edifici, sul ciclo di vita dei materiali, e sul tema dell’ecologia urbana è quindi di lunga data. Considero questo tema così radicato nel nostro operare che non mi sono mai pubblicizzato come architetto sostenibile, anche se Salewa ha conseguito il premio Casaclima work and life e Lavazza la certificazione Leed platinum, la più alta possibile.
Ma è proprio la mia cultura scientifica che mi mette in guardia dalla serie di imprecisioni, spesso dolose, che molti miei colleghi usano per pubblicizzare le loro architettura. In una ricerca multidisciplinare in Austria stiamo mettendo a punto un modello residenziale di nuova concezione che non necessita di alcun isolamento perché la sua doppia pelle vetrata è capace di creare uno spazio abitato che fa da filtro tra la temperatura interna e quella dell’ambiente nelle varie stagioni. Non riesco però a separare la questione della sostenibilità energetica dalla questione dell’equità sociale e della qualità degli ambienti urbani nel loro complesso. Bisogna continuare lo sforzo e affinare gli strumenti. Ognuno di noi deve contribuire nel suo piccolo, anche se i destini del mondo in termini ambientali saranno determinati da come i paesi emergenti ad alto tasso di natalità e crescita decideranno di indirizzare il proprio sviluppo.
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