Politiche frammentarie, discontinue e incerte. Così sull’elettrico l’Italia fa peggio persino della Grecia. Ne approfitta la Cina, che allarga l’offerta; ultimo caso la BYD Sealion 7.
Appunti per trasformare la città autocentrica in città delle persone
Tempo scaduto per la città autocentrica. Un modello superato e superabile grazie ad azioni che restituiscono spazi e benessere alle persone.
Siamo andati sulla Luna, abbiamo clonato la pecora Dolly, scomposto microparticelle e giochiamo a scacchi con l’intelligenza artificiale. Eppure non siamo ancora riusciti a liberarci dalla città autocentrica, per rendere le nostre strade dei luoghi vivibili, sicuri, dove ci si possa muovere liberamente a piedi o in bicicletta, con un passeggino o in carrozzina, dove i bambini e le bambine possano giocare tranquillamente, respirando aria pulita. Ancora oggi le persone sono confinate in spazi marginali e pericolosi, perché le strade sono dominate dalle auto, come viene ben rappresentato dall’illustratore svedese Karl Jilg.
Una fotografia approfondita del nostro paese la restituisce il Rapporto sulla mobilità degli italiani di Isfort. L’Italia svetta in Europa per numero di auto pro-capite (67 ogni cento persone). Usciamo di casa e siamo circondati da veicoli parcheggiati per oltre il 95 per cento del tempo. Al volante – nei contesti urbani – pascoliamo nel traffico congestionato tra noia, frustrazione e picchi di isteria, per fare una manciata di chilometri. A darci una stima del tempo perso in auto è l’annuale Traffic index di TomTom che raccoglie i dati su 389 città sparse nei sei continenti. In classifica nella top 15 mondiale troviamo ben tre città italiane. Quali? Forse vi sorprenderà ma è Milano, la smart city, a piazzarsi al quinto posto prima di Roma (12°) e Torino (15°).
A Milano infatti per percorrere 10 chilometri si impiegano in media 27 minuti e 30 secondi. La velocità, a causa delle congestioni stradali, è di 18 chilometri all’ora e il tempo medio speso in auto è di 259 ore all’anno, di cui 126 a causa del traffico. Facendo i conti, ogni anno si sta fermi circa 16 giornate lavorative, calcolate su una giornata di otto ore. Quanti libri, film, partite di ping pong, ore di giardinaggio, sonno, ricette, yoga e passeggiate con gli amici che ci perdiamo. E quanto è vero il motto “in bici saresti già arrivato”.
Abbiamo sviluppato una dipendenza dalle auto che attualmente ci lascia in balia del caro carburante e che ha costi altissimi a livello ambientale, sociale, sanitario (costi in Italia pari al 6,8 del prodotto interno lordo). Tuttavia continuiamo a comprare auto sempre più grandi, che vorremmo ci assomigliassero, dandoci un’identità: agile e scattante per lei, confortevole e sicura per la famiglia, veloce e ruggente per chi vuole sfidare i limiti. Di conseguenza, ci infervoriamo se le amministrazioni minacciano di ridurre i parcheggi, come se avere una porzione di spazio pubblico destinata a un mezzo privato (ingombrante, inquinante e pericoloso) fosse un diritto.
Perché succede questo? “La risposta è dentro di te – risponderebbe il santone che idolatra Quelo, il celebre personaggio creato dal comico Corrado Guzzanti – epperò è sbagliata!”. La nostra testa è infatti popolata da auto e c’è poco spazio per delle alternative. Le principali barriere che ostacolano il cambiamento (le stesse che si ritrovano nelle scelte politiche) sono così radicate e diffuse che non le vediamo più. Siamo immersi in un sistema che determina percezioni e comportamenti, imponendo il modello di città autocentrica secondo precisi dettami economici.
Per questo, ragionando sul tema della sicurezza, sulla mobilità sostenibile e sulle proteste che denunciano la strage legata alla violenza stradale, in particolare a Milano, bisogna parlare di cambiamenti culturali. Bisogna infatti togliere il concetto di auto privata dalla testa delle persone.
Città autocentrica, un modello superato e superabile
Basta cambiare orizzonte, sperimentare contesti differenti, fare un salto a Valencia, Parigi, Copenaghen per comprendere che non è normale attraversare la strada sulle strisce pedonali ringraziando chi in auto si ferma per dare la precedenza ai pedoni. E senza scomodare le grandi virtuose d’Europa, possiamo citare anche buoni esempi nostrani come Bolzano, Ferrara, Pesaro, Cesena (una delle prime città in Italia a introdurre “zone 30”, vent’anni fa) e la coraggiosa Bologna, la prima grande città italiana a diventare città 30. Una scelta, questa, orientata a stroncare il numero delle vittime di violenza stradale e ad accrescere il numero di persone che pedalano, come descritto nel vademecum città 30.
Pensiamo che in Francia in generale si è registrata una riduzione della mortalità del 70 per cento nelle città dove si adotta il limite dei 30 km/h. In questo modo a Lille in soli quattro anni sono aumentate del 55 per cento le persone che pedalano. Un altro caso interessante è quello di Graz, in Austria. Qui si è raggiunto un abbassamento del 50 per cento di mortalità (-24% subito, dal primo anno) con numeri particolarmente importanti nel caso di bambini davanti alle scuole: meno 90 per cento. Altra nota positiva: il rumore è sceso fino a meno due decibel, il che significa un calo del rumore percepito del 30 per cento. A Graz inizialmente l’introduzione della zona 30 è stata osteggiata dai cittadini che, nel 1992, la approvavano solo per il 44 per cento. Dopo due anni di sperimentazione il tasso di approvazione è però salito al 77 per cento, mentre oggi è stabilmente sopra l’80 per cento.
Servono quindi investimenti e un modello di città sostenibile. Come Roma non è stata costruita in un giorno, così Copenaghen non è diventata ciclabile in un giorno. In quella che viene considerata una delle città più bike friendly al mondo, ricordiamo infatti che si sono investiti ben 200 milioni di euro solo nell’ultimo decennio. Per fare cosa? Come si rimette in forma una città autocentrica?
Diverse sono le azioni da intraprendere. Si possono per esempio adottare politiche e strategie che vanno a ridurre le esigenze di spostamento delle persone e delle merci, accorciando i viaggi. Questa è l’idea della “città dei 15 minuti“, basata sui concetto di prossimità e di città policentrica, resa popolare dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo e ispirata dall’urbanista Carlos Moreno.
Si può adottare un approccio che punta al riequilibrio modale, con per esempio una regolazione degli accessi e della sosta e un implemento delle infrastrutture per la mobilità sostenibile, nonché un lavoro sulla comunicazione e sensibilizzazione delle persone. Infine, si può migliorare la prestazione dei mezzi di trasporto in termini di efficienza energetica e sicurezza, incentivando l’acquisto di veicoli a basso impatto o mettendo stazioni di ricarica. E poi c’è il tema del trasporto pubblico da potenziare, un tasto che in Italia diventa sempre più dolente man mano che ci si sposta verso sud. Dove a volte il tasto non esiste proprio, purtroppo.
“Non è una ciclabile, ma una politica sanitaria”
Puoi avere una pista ciclabile sotto casa ma se non sai andare in bici, se non la vedi come un mezzo di trasporto per te, se hai paura ad usarla, difficilmente ti metterai in sella per andare a far la spesa o al lavoro. Oltre a investire in infrastrutture e a mettere in rete i percorsi ciclabili, bisogna incentivare le persone con progetti, sussidi, iniziative, campagne di comunicazione, perché cambino le loro abitudini e si orientino verso la mobilità sostenibile. Che, non dimentichiamo, è uno strumento per ottenere anche giustizia sociale. Dare priorità alla ciclabilità, anziché al mezzo privato motorizzato, significa rendere più democratico il sistema dei trasporti e renderlo accessibile a tutti. In questo senso, chi amministra i comuni, dovrebbe realizzare ciclabili pensandole come una politica sanitaria.
È di aprile la lettera firmata da 14mila pediatri italiani rivolta ai sindaci in cui si chiede di ridurre l’inquinamento, proteggere i bambini e contrastare la sedentarietà, dove la bici viene indicata come soluzione per questi rischi. Più recente è l’appello lanciato da Cittadini per l’aria in occasione della Giornata internazionale dell’aria pulita (7 settembre), per chiedere che la nuova direttiva europea sulla qualità dell’aria sia allineata alle indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità. La richiesta rivolta agli eurodeputati è di esprimersi – in occasione del voto del 13 settembre – a favore del diritto di respirare aria pulita. In Italia, infatti, l’impatto dell’inquinamento causa 72mila e 40mila morti premature per, rispettivamente, l’esposizione della popolazione a concentrazioni di PM2,5 e biossido di azoto (NO2), che superano le soglie indicate dall’Oms.
Notizia è che il parlamento europeo ha approvato la nuova direttiva stabilendo valori limite più rigorosi e obiettivi più ambiziosi da raggiungere entro il 2035 rispetto alla proposta iniziale presentata dalla Commissione europea, in linea con il perseguimento di Inquinamento zero entro il 2050.
Parole giuste per strade più giuste, il problema della disinformazione
Spoiler: non esiste la “strada killer” spesso additata all’interno dei titoli dei giornali come causa di “incidenti” stradali. Non esiste la “strada maledetta” che si nasconde sotto un mantello d’asfalto per mietere vittime. E non esiste nemmeno “l’auto pirata” o “l’auto che travolge, investe, uccide”. Non possiamo omettere la persona che guida, umanizzando il mezzo e tralasciando le reali responsabilità.
Seguendo l’esempio di Michela Murgia, che con la sua rassegna stampa sessista denunciava la colpevolizzazione delle vittime di violenza di genere da parte dei mezzi d’informazione, potremmo dare vita a una rassegna stampa autocentrica, per portare l’attenzione sulla cattiva informazione che si fa in questo ambito. Ogni giorno, di fronte ai casi di violenza stradale, facciamo i conti con una narrazione che alimenta pregiudizi e genera scarsa comprensione della realtà, influendo sui processi decisionali e cognitivi dei cittadini, influenzando in sostanza la loro capacità di intraprendere azioni per il benessere collettivo.
Dobbiamo fare uno sforzo per raccontare con lucidità quello che accade sotto i nostri occhi, identificare le responsabilità (che stanno sulle spalle di chi amministra le città e di chi quindi può portare miglioramenti) senza cadere in discorsi “di pancia” o finire in vicoli ciechi dove si vanno erroneamente a contrapporre autisti, ciclisti, pedoni.
Da questo punto di vista ci vengono in aiuto le ricerche di Maria Cristina Caimotto, professoressa dell’Università di Torino esperta di ecolinguistica e autrice del libro Discourses of cycling, road users and sustainability. An ecolinguistic investigation, in cui si porta avanti un’analisi interessante dei discorsi della mobilità sostenibile e dei suoi legami profondi con l’ideologia neoliberista.
“La narrazione dominante, che vede l’auto come il principale mezzo di trasporto in città, è stata costruita nei decenni dal marketing dell’industria automobilistica – ci spiega Caimotto –. Il paragone più efficace è quello con le industrie del tabacco che per anni hanno continuato a promuovere i loro prodotti, pur essendo consapevoli dei danni che questi provocavano, fin quando un numero sufficiente di persone informate, di battaglie in tribunale e di nuove leggi ha pesantemente cambiato la percezione diffusa del fumo, riducendone il consumo”. E poi aggiunge: “Provate a dire a un adolescente di oggi che negli anni anni Ottanta si fumava negli ospedali, sui treni, nelle scuole elementari, osservate la sua reazione, e poi immaginate una conversazione simile sulle auto in città tra un po’ di anni e che effetto farà raccontare la nostra attuale situazione”.
Le utopie visive di Jan Kamensky, artista e “giardiniere digitale”
La partita per migliorare la qualità della vita nella città autocentrica si gioca quindi anche sul piano della comunicazione. Immaginate di rimuovere i cartelloni pubblicitari delle auto e di sostituirli con campagne volte a incentivare l’uso della bicicletta e la mobilità sostenibile. Sarebbe per i nostri cervelli una grandissima boccata d’ossigeno, una ginnastica mentale che ci porterebbe a passare agilmente dal volante al manubrio.
Una suggestione affascinante ci viene offerta da Jan Kamensky, artista visionario e “giardiniere digitale” che nei suoi video crea utopie visive, trasformando i contesti urbani, togliendo le auto e popolandoli di verde e umanità.
“Abbiamo bisogno di un cambiamento fondamentale e strutturale in breve tempo – afferma Kamensky. “Cosa c’entra questo con la bicicletta? La bici è una manifestazione di questo cambiamento, pedalando siamo in armonia col mondo. La bicicletta è simbolo di emancipazione”.
Attendiamo quindi il giorno in cui googlando “ciclista” compariranno immagini di persone comuni e non solo di maschi sportivi (bianchi e di mezza età) su bici da corsa, inguainati in tutine di lycra, cosa che accade oggi. Sapremo a quel punto di aver fatto un buon lavoro a livello di immaginario.
Così, dopo aver messo in fila questa serie di appunti raccolti negli ultimi mesi, tra conferenze sulla città 30 (modello chiave per trasformare le città), Velocity Conference (summit internazionale sulla mobilità attiva che si è svolto a maggio a Lipsia), le manifestazioni milanesi contro la violenza stradale e gli articoli pubblicati su queste pagine, potremmo anche cominciare a pensare di liberarci dal sistema autocentrico come ci si libera dal patriarcato. Infatti, questi due sistemi sembrano avere un buon grado di parentela, così come sempre più si assomigliano e si intersecano le battaglie per smantellarli e costruire società più eque, nonché città migliori.
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