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Claude Monet in mostra a Parma, tra ninfee e falesie
Mai come in questo caso il filo conduttore di un racconto pittorico coincide con un elemento naturalistico univoco ed immediatamente identificabile, ovvero l’acqua, con tutte le sue infinite rifrazioni luminose. Che sia quella del mare su cui strapiombano le falesie della Normandia o la superficie degli stagni (anch’essi normanni) di Giverny su cui galleggiano le
Mai come in questo caso il filo conduttore di un racconto pittorico coincide con un elemento naturalistico univoco ed immediatamente identificabile, ovvero l’acqua, con tutte le sue infinite rifrazioni luminose. Che sia quella del mare su cui strapiombano le falesie della Normandia o la superficie degli stagni (anch’essi normanni) di Giverny su cui galleggiano le ninfee, in entrambi gli scenari il pittore impressionista Claude Monet evoca l’acqua con la medesima inconfondibile maestria per declinare i tratti di una poetica ormai assurta alla dignità di vero e proprio classico dell’arte universale.
Tre dipinti iconici alla Villa dei Capolavori
La cosiddetta Villa dei Capolavori, sede della Fondazione Magnani Rocca in provincia di Parma, e per l’esattezza a Mamiano di Traversetolo, dedica infatti al celebre fondatore dell’Impressionismo, dal 3 settembre all’11 dicembre, un breve ma intenso percorso espositivo articolato in tre opere: Le bassin aux nymphéas (1904), proveniente dal Denver Art Museum, Falaises à Pourville, soleil levant (1897), conservato nella Fondazione, e Falaise du Petit Ailly à Varengeville (1896) appartenente alla collezione Tanzi.
Tipicamente riconoscibili, su ciascuna delle tre tele, i caratteri distintivi di un linguaggio pittorico la cui innovatività risultò, all’epoca della sua apparizione, così dirompente da suscitare scandalo: lo stesso appellativo di “impressionnistes” fu coniato dal critico Louis Leroy, a mo’ di epiteto canzonatorio, a partire da un celebre dipinto dello stesso Monet (Impression, soleil levant del 1872), proprio per stigmatizzare la tendenza antifigurativa ed evanescente di quel nuovo orientamento artistico destinato in breve tempo alla gloria planetaria.
L’etichetta di “impressionisti”, che finirà con l’imporsi soppiantando le più dotte diciture di plein-airistes, tachistes e simili, pur arrivando a ricomprendere al proprio interno personalità pittoriche profondamente diverse, diverrà ben presto sinonimo di un determinato approccio tecnico al colore e alla pennellata, sfumata, scontornata e posta totalmente al servizio della luce e del movimento.
L’enigma del tempo e il fluire delle stagioni
E se i curatori della mostra parmense arrivano a scorgere nelle ninfee del maestro francese un’anticipazione della pittura informale europea di quarant’anni dopo, va pur sottolineato come ciascuna delle tre opere esposte innanzitutto racchiuda le tracce peculiari dell’inconfondibile universo di Monet: dall’accurato studio dell’acqua, che destruttura e dissolve l’immagine di cose e paesaggi, fino all’interesse spiccato per l’arte giapponese, donde la predilezione per le ninfee e la scelta di trasferirsi nel buen retiro di Giverny, attuale sede del giardino-museo omonimo.
Ma soprattutto emerge, sia dalla raffigurazione delle piante acquatiche sia da quella delle falesie, l’ambizioso tentativo di catturare il fluire del tempo, sottoponendo i medesimi oggetti a cicli pittorici consecutivi ambientati nelle differenti stagioni o condizioni atmosferiche.
Una programmatica serialità che si riscontra anche nel caso delle falesie, dato che le Falaises à Pourville in mostra alla Fondazione Magnani appartengono ad un medesimo ciclo di cinque dipinti a tema.
Ma a ben guardare si tratta di un’impresa che Monet continuò stoicamente a perseguire fino alla più tarda età, quando malgrado la vista ormai compromessa riuscì a dipingere le ampie superfici dei 22 pannelli oggi esposti nelle sale parigine del Musée de l’Orangerie: ancora e sempre le ninfee, nella cui atmosfera di sospensione, leggiadria e levità ogni visitatore può, parafrasando il poeta, continuare dolcemente a naufragare.
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