Si è concluso il biennio di sperimentazione del reddito di cittadinanza in Finlandia. Nel bilancio pubblicato dal governo non mancano le sorprese.
Claudio Sadler. L’amore per la battaglia, la cucina e per Milano, la mia ricetta della soddisfazione
Un simbolo è ciò il cui significato, la cui importanza, va ben oltre quel che è, la sua mera natura e identità. Claudio Sadler è un simbolo. Di Milano, dell’arte della cucina succulenta e stellata, di un incrollabile successo imprenditoriale nella città che negli anni ’80 era da bere e che ora è da amare
Un simbolo è ciò il cui significato, la cui importanza, va ben oltre quel che è, la sua mera natura e identità. Claudio Sadler è un simbolo. Di Milano, dell’arte della cucina succulenta e stellata, di un incrollabile successo imprenditoriale nella città che negli anni ’80 era da bere e che ora è da amare nella sua rinascita all’insegna della qualità della vita e del cosmopolitismo.
Claudio Sadler, oggi, è un bastione inscalfibile dell’alta ristorazione milanese con due ristoranti a Milano in zona Navigli: Ristorante Sadler, due stelle Michelin, Chic’N Quick, bistrot contemporaneo, l’associazione dei migliori ristoranti italiani Le Soste, sei libri e forse un settimo in arrivo, una società di catering e banqueting. Ieri, un ristorante di successo a Tokyo e uno a Pechino in piazza Tienanmen, la scuola di cucina, l’associazione di giovani ristoratori. Domani, ovunque punterà la sua linea in ascesa, da trent’anni costante.
Per dare loro speranza, energia, soddisfazione, tentiamo di stilare con lui un decalogo ideale per i giovani. Elementi di un esemplare successo economico e professionale per chi oggi vuol provare a dedicarsi a un lavoro con la dedizione, l’ambizione e la passione di cui Sadler è uno splendido testimone.
Claudio Sadler si è creato da sé. A partire da ciò che le ha dato in dote la sua famiglia. Infatti racconta che “la sensorialità e l’applicazione del gusto sono nate da casa mia. La mia famiglia era normalissima, mio padre era operaio e mia madre casalinga, tuttavia nonostante i sacrifici ero abituato a mangiare molto bene. Mia madre era mantovana e ciò è fondamentale. Fin da piccolo venivo portato nella pasticceria di mia zia a Mantova e non mancavano la pasta fresca, i tortellini, i tortelli. Mio padre, invece, era trentino, andavamo nei boschi alla ricerca di cose buone come i funghi, i mirtilli”. L’idea di fare il cuoco è sempre stata insita in lei?
La cosa più importante è che il mio sogno è sempre stato quello di esser quello che sono oggi.
A un certo punto della mia storia, intorno ai vent’anni, ho pensato che avrei voluto diventare uno chef. Ma non solo, avrei voluto diventare un ristoratore, e ancor più un imprenditore perché mi è sempre piaciuto fare qualcosa con gli altri, per gli altri.
Per cominciare il nostro decalogo ideale, mettiamo di non aver paura della fatica durante la gavetta, per forgiarsi?
Quando sono partito ho anch’io fatto la mia gavetta, già a 14 anni, lavorando in grandi alberghi, facendo il tirocinio come commis, l’aiuto cuoco. Un’esperienza che consiglio a tutti i giovani, non bisogna avere paura di lavorare in posti dove c’è tanto movimento. Così ottieni una sorta di forgiatura alla difficoltà, alla fatica – molta fatica –, lavorando anche tredici, quattordici ore. Ho lavorato con chef che, seppur non famosi, mi hanno formato nella disciplina, nella mentalità, che è fondamentale.
Poi, ho accettato un posto in una mensa, ma la ripetitività del lavoro in cui replicavo pedissequamente le stesse cose non faceva per me. Aspiravo a ben altro.
Dunque, seconda cosa, serve una certa ambizione.
Molta ambizione. È un valore molto importante. L’ambizione, il talento e la passione determinano la tua strada. Ti danno la possibilità di superare le fatiche e le rinunce. A vent’anni lavoravo tutte le domeniche, a Natale, a Pasqua, rinunciando a stare insieme agli amici, alla fidanzata a cui non potevo dar tutto quel che volevo…
Punto terzo, imparare a insegnare e a comandare.
A 25 anni ho iniziato a insegnare all’istituto alberghiero, al Carlo Porta di Milano. È stato molto importante per me ritornare all’alberghiero, significava dover trovare il tempo per formarsi, per tornare a studiare, ho dovuto imparare a insegnare e ritengo che sia un bel lavoro. Ho capito cosa vuol dire parlare di fronte alle persone, mantenere desta l’attenzione, mostrarsi autorevole e non autoritario, trasmettere i messaggi giusti, motivare chi ti sta intorno. È un bell’ambito, tiene allenata la mente. Anche durante il militare ho avuto modo di provare questo modo di insegnare e comandare. Il maresciallo mi ha dato la cucina degli ufficiali in mano, a Mortara, squadriglia radar dell’Aeronautica Militare, dicendomi “fai tu”, poi si è pentito perché ero troppo fantasioso! Ma lì ho capito che avevo l’attitudine al comando e l’ho esercitata. Sono sempre stato uno che si è preso la briga di aver responsabilità.
Prima abbiamo fatto cenno alla gavetta, alla formazione. Ma come si scelgono i maestri da seguire?
Prima di tutto cerco di capire la persona. Più che il professionista, valuto la persona.
Se valuto una persona degna della mia considerazione e del mio rispetto, lo seguo, cerco di capire le sue peculiarità, le sue eccellenze.
Ok, quarto: scegliere i maestri giusti, capendo le persone.
Per esempio, da Gualtiero Marchesi ho imparato che la cucina che facevamo negli anni ’70 e ’80 stava cambiando, dalle pièce nei vassoioni ai piatti finemente creati con l’attenzione alle salse, alle temperature, alle consistenze. Marchesi mi ha fatto capire che la cucina classica si era trasformata in una nuova cucina.
Poi ho incontrato Aimo Moroni, che è stato folgorante. È la persona che più ha fatto leva sui miei pensieri perché lavora moltissimo sul prodotto. Poi mi ha fatto capire che la cucina italiana è più importante di qualunque cosa io potessi inventare. Ho interpretato a modo mio questo principio.
Ma per me ha rappresentato molto anche lo chef Giuseppe Ruga. Non un nome celebre. Gestiva una brigata da trenta cuochi. Lui è stato un personaggio chiave, perché è il primo cuoco che ho visto andare in sala a prendere gli ordini, anche in diverse lingue. Non l’avevo mai visto fare: di solito i cuochi erano timorosi, asserragliati in cucina a inveire contro il maître. Eravamo a un Hilton, e quando è arrivato lui ha ribaltato un paradigma, “mangiandosi” il maître e dimostrando che la mia professione poteva essere intesa con un altro punto di vista, in una prospettiva protagonistica che mi ha colpito molto.
Piccola nota a margine: però, si devono imparare bene le basi, la tradizione. Se si va solo da grandi maestri, si imparano le cose da grandi maestri, ma poi di fronte a una difficoltà vera, tipo fare un banchetto da duecento persone in una cucina di quattro metri quadrati, ci si squaglia!
Dove ha trovato i soldi per il primo ristorante a Pavia?
Il mio patrimonio ero io. Ho sempre lavorato e guadagnato, quindi con i miei risparmi, a ventisette anni, e con un socio, Oreste Corradi (non potevo affrontare l’operatività di un ristorante da solo), bravo direttore di sala, abbiamo comprato la Locanda Vecchia Pavia. In due avevamo 32 milioni di lire, gli altri li abbiamo chiesti. C’è da dire che allora la capacità e il valore del lavoro erano più determinanti che adesso, per ottenere credito. Nel giro di due anni ci siamo tirati fuori dai debiti, è stata un’esperienza importante.
Dopo Pavia è stato ad Altopalato, scuola di gourmet fondata da Terry Sarcina dove s’insegnano le più evolute tecniche di cucina. Cosa le ha lasciato?
Li ho imparato un’altra cosa. Sono nati rapporti di lavoro e di amicizia con molti giornalisti, che hanno mostrato interesse e benevolenza per me e il mio lavoro, così ho compreso l’importanza della comunicazione, essenziale per farsi conoscere.
Ad Altopalato ho lavorato un anno. Però a me piace la battaglia…
E infatti nel 1986 apre il suo primo ristorante a Milano, l’Osteria di Porta Cicca di Ripa di Porta Ticinese, a fianco al pont de ferr. Erano i tempi del Marchesi in via Bonvesin della Riva e di Santin all’Antica Osteria del Ponte. Nel 1991 viene insignito della sua prima stella Michelin. Nel 1995 il ristorante si sposta in Conchetta, via Trailo, sempre nella zona dei Navigli milanesi dove rimarrà per undici anni. E nel 2002 la seconda stella Michelin. Allora oserei notare: quinto, essere lineari nella crescita, non fare salti per aria, senza fermarsi mai.
L’Osteria di Porta Cicca era in una zona bohémien, era zona di artisti e antiquari. Ero giovane quindi non potevo permettermi di aprire in centro. Però avevo guadagnato abbastanza a Pavia per vendere e poter aprire a Milano. Avevo investito 17 milioni di lire e ne avevo recuperati 120. Ho preso un posto e l’ho ristrutturato indebitandomi nuovamente. Mi aiutò una banca, che abbiamo ripagato. Devo ammettere che, con gli occhi di oggi, nella mia spregiudicatezza economica ho compiuto delle scelte strategiche… I Navigli andavano di moda in quel momento e mi sono detto, “vado in un posto dove c’è del movimento”. Dopo cinque anni è arrivata la stella Michelin. Quella prima stella, nel 1991, è stata l’emozione più grande. Mi è arrivato un telegramma e mi sono detto “Oddio, sarà morto qualcuno”. Lo leggo, e mi hanno convocato alla premiazione; sono impallidito, non me l’aspettavo. Non lavoravo per ottenerla, ci pensavo, certo, ma quando è arrivata è stata sconvolgente. Addirittura, una sensazione paragonabile a quando è nata mia figlia. Una grandissima emozione.
Questo mi fa pensare a un’altra cosa che ci ha appena detto e potremmo proporlo come sesto punto di questo decalogo ideale per l’affermazione professionale. Prima ha fatto cenno al piacere della battaglia più che della vittoria. È un tratto della sua linea d’azione che si esprime sia nel lavoro, che nella vita personale?
Sì, io punto all’appagamento in tutto ciò che faccio. Quando gioco a tennis, non m’impunto per la vittoria, ma punto al piacere di un bell’assist, una bella battuta.
Anche nel ristorante successivo lei non ha rilevato la gestione di un posto, bensì lo ha riplasmato in base alle sue visioni. Partecipa a un’asta di un’attività fallita, se l’aggiudica e ristruttura tutto. Quindi forse è un po’ una sua costante: ristrutturare, plasmare, ricreare, appropriarsi in ogni senso del proprio posto?
Volevo fare un passo avanti perché tutto mi diceva che stavo andando bene, avevo preso la prima stella Michelin ma se rimanevo dov’ero non sarei riuscito a prendere la seconda.
Il ristorante in Conchetta era un po’ più grande, più bello, avevo una cucina più grande, una sala più bella, un giardino. Sì, quando vado in un posto, lo devo mettere come voglio io. Anche a costo di litigare un po’ con gli architetti. L’attuale cucina del Ristorante Sadler l’ho disegnata io.
Sulla sua scrivania sbucano i disegni di tagliatelle al pesto di frutti rossi. I suoi piatti sono a lungo studiati e progettatati – cioè, realmente disegnati con matite colorate, pastelli Stabilo e pennarelli per belle arti Lyra – prima di testarli ai fornelli. A cosa le serve disegnare i piatti?
L’arte è un linguaggio. Disegno ed esercito questo linguaggio perché mi serve per parlare con i miei cuochi. Chi collabora con me ha il mio stesso retaggio, se dico loro come fare una salsa, sanno come farla. Chi viene a lavorare qui ha una competenza di partenza ovviamente, ma poi impara i nostri gusti, il modo di lavorare, l’utilizzo delle materie prime, dei grassi, delle cotture, tramandati di persona in persona. Perché, devo dire, chi viene qui si trattiene abbastanza a lungo, forse perché si trova bene.
Bello. Ottavo punto del nostro decalogo ideale, far stare bene i collaboratori. Metterli nelle condizioni di dare il meglio di sé.
Riusciamo a fare un lavoro di qualità attraverso il rispetto e il coinvolgimento. Non vesso nessuno se non c’è bisogno di farlo. Quando ero meno sicuro di me, sbraitavo. Poi ho capito che arrabbiarsi è una perdita di energie (che non posso permettermi dato che lavoro sedici ore al giorno). Lavorare con i ragazzi è stimolante, li lascio tirar fuori le sensazioni in base alle materie che usano, mi sottopongono tante prove che valutiamo insieme e sperimentiamo. Ogni mio collaboratore ha la possibilità di propormi i suoi piatti, che se sono meritevoli possono addirittura entrare nel menù del Ristorante Sadler.
Il rapporto tra tradizione e innovazione è un dilemma, nel suo settore. Ha partecipato all’evoluzione della nouvelle cuisine, ha fatto la cucina del territorio e quella mediterranea. E ha avuto più volte modo di discutere il suo approccio alle mode gastronomiche, che definirei cauto, consapevole, o ancor meglio intelligente. È corretto?
Per me resta fondamentale il prodotto. Non mi interessa la cucina molecolare, non mi interessa prendere una cosa e smembrarla. La natura ci dà dei prodotti meravigliosi, perché devo ridurli nei minimi termini per poi ricomporli? Mi piacciono i giochi di destrutturare e ristrutturare, ma solo se trovo che ci sia intelligenza.
Quindi, come penultimo punto, suggerisce di approcciarsi alle mode con intelligenza. Riconoscendo il valore della tradizione.
Trovo per esempio che ci siano tanti cuochi giovani che compiono operazioni di destrutturazione solo per dire che l’hanno fatta. Non ha senso. Ci sono dei piatti assoluti che così come stanno, stanno bene; l’amatriciana, il risotto alla milanese. Poi possiamo anche rivederli, ma senza cambiare il sapore. La carbonara l’abbiamo rivisitata in mille modi, posso farla liquida, cubica, ma alla fine il gusto… l’è semper quel.
La tradizione è importante. Non puoi diventare un grande cuoco se non ne riconosci il valore. Come non puoi diventare un grande direttore d’orchestra se non conosci gli arpeggi al pianoforte.
Qual è il suo primo ricordo d’infanzia di Milano?
Io sono di Sesto San Giovanni, che è diverso. Mi ricordo le fabbriche. Con le polveri grigie che s’accumulavano sul davanzale della finestra e si tiravano su col dito.
Ma ora è la città metropolitana di Milano! Milano è (stata) anche questo.
Altra memoria – gastronomica, stavolta – era la taverna Scoffone, famosa fiaschetteria dove ora c’è Peck, e ricordo da piccolino che dopo esser stati al cinema mi portavano lì a mangiare il panino con wurstel e crauti, e davano da bere un vinello, credo un malvasia (non a me, che ero bambino).
Proprio perché oggi Milano è così in fermento, fertile e viva, lei sta riflettendo se sondare nuove iniziative, magari più in centro, per dragare anche le ondate di persone che periodicamente, dal Fuorisalone alle settimane della moda, lo affollano?
Milano è diventata finalmente una città internazionale e sta andando bene. Con l’attuale collocazione del Ristorante Sadler in via Sforza, appena fuori la cerchia dei Navigli, le persone devono venire qui apposta per entrare in un due stelle Michelin. Ma proprio per questo, se dovessi fare un investimento, non sposterei il mio ristorante, perché ce l’ho già, me lo sono costruito, me lo sto godendo. Ma non sono mai stanco, sono eclettico, e so che se non ti muovi in continuazione e fai vedere che ci sei, stelle o non stelle, la tua immagine s’eclissa. Oggi la città è diversa, ci sono nuove opportunità per lavorare quindi, se investo, investirò su una nuova formula a Milano.
Quindi, decimo, per concludere: amare il proprio lavoro e la propria città. Al punto di diventarne un simbolo.
Nulla di meglio che concludere quest’intervista esclusiva con un’apertura verso il futuro. Claudio Sadler, tra uffici, cucina e sale del suo splendido ristorante, ha condiviso il suo personale decalogo per il successo e la soddisfazione, tra innovazione e tradizione, tra gusto e amore per ciò che si fa.
Uno, non aver paura della fatica durante la gavetta, è una forgiatura alle difficoltà. Due, l’ambizione, il talento e la passione determinano la tua strada. Tre, impara a insegnare e a comandare. Quattro, scegli i maestri giusti, cercando di capire la persona. Cinque, essere lineari nella crescita, non fare salti per aria. Sei, cerca il piacere nella battaglia, più che nella vittoria. Sette, appropriarsi in ogni senso del tuo posto. Otto, far star bene i collaboratori. Nove, approcciarsi alle mode con intelligenza. Dieci, amare la propria città.
Foto di copertina: © Paolo Pojano, Chefs4Passion
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