Il clima che cambia sta delineando una nuova geografia del cibo con l’agricoltura chiamata a rispondere alle sfide ambientali e di sicurezza alimentare.
Cibi importati nell’Unione europea, perché servono delle clausole specchio
I cibi importati nell’Ue non devono sottostare agli stessi standard di produzione di quelli europei. L’introduzione di clausole specchio garantirebbe reciprocità favorendo anche la transizione agroecologica.
- In mancanza di clausole specchio, i cibi importati nell’Unione europea non devono rispettare gli stessi standard di produzione di quelli europei.
- Secondo Slow Food Italia è una contraddizione che ostacola la transizione agroecologica europea e globale.
- Per questo l’associazione chiede misure speculari che tutelino agricoltori e consumatori, in Europa e nei Paesi extra Ue.
Nello scambio commerciale di prodotti alimentari tra l’Unione europea e i paesi extra Ue servono “clausole specchio” che garantiscano il principio di reciprocità: lo chiede Slow Food Italia che in lungo e approfondito documento spiega nel dettaglio le problematiche legate all’import di alimenti, le difficoltà degli agricoltori, la necessità – urgente – di cambiare l’agricoltura. Il report fa parte del manifesto per le elezioni Ue che l’associazione invierà ai candidati europeei, ma anche ai governatori dei territori italiani con cui lavora, nella convinzione che ci siano delle questioni di principio applicabili anche a livello locale.
“L’Europa che vogliamo è un’Europa attenta a ciò che mette in tavola, perché questo ha tantissime ricadute sulla fertilità dei suoli, sulle risorse naturali, sulla crisi ambientale e climatica, sulle questioni economiche e sociali e questo non è limitato ai soli prodotti d’importazione”, spiega Serena Milano, direttrice di Slow Food Italia. “Ecco perché Slow Food Italia ha messo a punto un manifesto, articolato in 12 punti, che racchiude la nostra idea di cibo e di politiche alimentari e agricole da adottare”.
Clausole specchio per i cibi importati nell’Unione europea, Slow Food Italia: “Indispensabili per per attuare la transizione agroecologica”
Tornando nello specifico alle clausole specchio, il nodo della questione è che, mentre, la produzione agroalimentare dell’Unione europea deve rispettare determinati standard di qualità tesi a garantire la sicurezza alimentare, la tutela ambientale, i diritti sociali, il benessere animale, lo stesso non viene richiesto ai cibi importati dai paesi extra Ue per cui esistono, per quanto riguarda per esempio i residui dei pesticidi, dei limiti di tolleranza. Una contraddizione che, secondo Slow Food Italia, non è più possibile ignorare. I doppi standard non consentono, infatti, di mantenere gli impegni che l’Unione Europea ha assunto con il Green deal e ostacolano a livello globale il processo di transizione ecologica verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030; inoltre, generano una distorsione nella concorrenza ai danni degli agricoltori europei, contribuendo al disagio manifestato con le recenti proteste dei trattori in tutta Europa. La politica commerciale dell’Unione europea in ambito alimentare non può indietreggiare rispetto alle strategie di sostenibilità, al contrario deve supportare gli agricoltori nell’identificarsi in questo patto verde.
“L’adozione delle clausole specchio è una questione di trasparenza per i consumatori e una garanzia sotto diversi punti di vista” precisa Milano. “Sotto il profilo economico, ci troviamo di fronte a una forma di concorrenza sleale: i cibi importati all’interno dell’Ue spesso non rispettano le stesse regole – più stringenti – osservate dai produttori europei. Parliamo di norme che hanno importanti riflessi sulla salute dell’uomo, degli animali, delle piante, dell’ambiente: riguardano, ad esempio, le varietà geneticamente modificate, l’uso di pesticidi nei campi, la somministrazione di antibiotici e ormoni negli allevamenti. Limitazioni sacrosante, ma che incomprensibilmente oggi l’Ue applica soltanto ai produttori interni e non al cibo che viene importato”.
Carne bovina, soia, riso: la differenza tra la produzione europea e quella extra Ue
Per mettere in evidenza le discrepanze esistenti tra gli alimenti prodotti nell’Unione europea e quelli importati dai Paesi terzi, Slow Food Italia ha analizzato tre filiere produttive: quella della carne bovina, quella della soia e quella del riso.
Nel caso della carne bovina viene comparata quella prodotta nell’Unione europea e quella prodotta in Brasile, tra i principali produttori a livello mondiale. Mentre per la carne bovina europea si richiede la tracciabilità dalla nascita alla macellazione dell’animale e sono previsti standard di benessere animale, in Brasile questi due aspetti non sono regolamentati. Nell’allevamento brasiliano, inoltre, si utilizzano ormoni e antibiotici per la crescita e farine di carne e ossa di ruminanti nell’alimentazione degli animali che nell’Unione Europa sono invece vietati.
Anche nel caso della soia, il confronto è con il Brasile e riguarda principalmente ogm e pesticidi autorizzati nella produzione brasiliana e vietati nell’Unione europea. L’Italia ha vietato gli ogm nel 2015, insieme ad altri 17 governi dell’Ue, mentre nei restanti Paesi europei per gli ogm è necessaria un’autorizzazione preventiva, comprensiva di una valutazione del rischio. Dall’altra parte, il 77 cento della soia prodotta nel mondo è geneticamente modificata – con picchi del 94 per cento circa della soia coltivata negli Stati Uniti e del 97 per cento di quella coltivata in Brasile. Poiché si tratta di soia destinata in maggioranza all’alimentazione degli animali, qui emerge il problema: gli ogm arrivano comunque nel piatto degli europei, in modo nascosto attraverso i prodotti di origine animale (carne, latte, uova, formaggi), perché non è obbligatorio indicare sull’etichetta di questi alimenti se gli animali sono stati nutriti con soia ogm.
Alla soia ogm è strettamente correlato l’uso di glifosato, un erbicida classificato come potenzialmente cancerogeno dallo Iarc: attualmente il limite massimo di residuo di glifosato per la soia importata è di 20 ppm, cioè 200 volte più alto di quello consentito per molte altre colture. Il Brasile utilizza, inoltre, molti prodotti fitosanitari vietati nell’Unione europea: in particolare, un terzo delle sostanze attive autorizzate in Brasile è vietato nell’Ue. E la coltura a maggior intensità di pesticidi in Brasile è proprio la soia, che assorbe il 52 per cento dei pesticidi.
Anche sul riso la questione centrale è quella degli agrotossici ed emerge in modo lampante confrontando il riso europeo con quello indiano. Le molecole fitosanitari vietate nell’Ue sono 195, mentre in India – che copre l’80 per cento della produzione mondiale di riso – solo 56. Oltre a numerosi pesticidi vietati nell’Unione europea e utilizzati, invece, nella produzione indiana, esistono anche quattro molecole autorizzate in India che sono sconosciute in Europa e su cui, per questo, non esistono limiti massimi di residuo, né controlli.
Le clausole specchio e le altre richieste di Slow Food Italia
Nel dettaglio le richieste di Slow Food Italia all’Unione europea a proposito degli alimenti importati da paesi extra Ue sono quelle di porre fine ai doppi standard adottando misure speculari, su tutte le fasi della filiera, e di applicare sui prodotti importati le stesse misure di sicurezza che valgono per quelli prodotti nell’Ue.
Per l’associazione occorre anche ripensare l’approccio con cui sono stabiliti i limiti massimi di residui per i prodotti coltivati con sostanze pericolose, istituendo inoltre un sistema di valutazione, monitoraggio e sanzioni. In attesa dell’effettiva introduzione di clausole specchio valide su tutti gli accordi commerciali europei, per Slow Food Italia è necessario rifiutare la ratifica di quelli che non le contengono.
Una transizione da compiere con i Paesi terzi, non a loro spese
A questo si aggiunge la richiesta di impedire ai paesi europei di produrre per l’esportazione nei Paesi terzi gli agrotossici che in Europa sono vietati, per non contribuire al danno alla salute pubblica e all’ambiente di quei paesi e per non creare i presupposti per un conflitto di interesse in seno agli Stati membri dell’Ue che dovranno votare contro l’innalzamento delle soglie di tolleranza per i residui nei prodotti agroalimentari d’importazione.
Slow Food Italia chiede anche di evitare ogni forma di appropriazione coloniale del Sud globale da parte dei Paesi industrializzati, come l’esternalizzazione degli effetti negativi dei sistemi agroindustriali che lavorano per il mercato europeo o lo sfruttamento delle risorse naturali dei Paesi terzi, e di tenere in considerazione le connessioni tra principio di precauzione e il fondamentale diritto alla vita di tutte le persone: quelle che vivono nei Paesi terzi, la cui vita viene minacciata da produzioni tossiche, e quelle che vivono in Europa, soggette alla contaminazione dai residui nei prodotti importati e che vedono negato anche il proprio diritto all’informazione date le lacune in materia di tracciabilità e di etichettatura per i prodotti di importazione.
Slow Food Italia sottolinea che per raggiungere questi obiettivi è fondamentale assistere gli agricoltori del Sud del mondo in questo processo di transizione e mettere in atto sistemi per consentire ai loro Paesi di soddisfare gli standard più elevati, passando a sistemi alimentari agroecologici.
“Un’altra agricoltura è possibile”
Un’agricoltura diversa è possibile, dichiarano a gran voce da Slow Food Italia, come dimostrano i dati dell’agricoltura biologica, di cui l’Italia è tra i leader mondiali con il 18,7 per cento della superficie agricola utilizzata certificato. Occorre però garantire prezzi equi agli agricoltori, premiare chi produce cibi sani nel rispetto del suolo, regolamentare la concorrenza fra prodotti locali e di importazione, sostenere le aziende affinché possano modificare il proprio modello produttivo, passando dalle monocolture intensive a pratiche agroecologiche, ovvero in armonia con i processi ecologici, sostenibili, rispettose della biodiversità. In una parola, si deve promuovere lo sviluppo di sistemi alimentari sostenibili. E questo non solo nell’Unione europea, ma ovunque nel mondo.
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