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La clownterapia è una cosa seria. Cos’è e quali sono i suoi benefici
La clownterapia è una terapia di sostegno per migliorare l’umore dei pazienti ricoverati in strutture ospedaliere, attraverso l’utilizzo di tecniche del circo e del teatro di strada. Si basa sugli studi della psico neuro endocrino immunologia (Pnei) e della gelotologia, che indagano la connessione tra emozioni e salute. Diventare clown dottore richiede competenze specifiche (teatrali,
- La clownterapia è una terapia di sostegno per migliorare l’umore dei pazienti ricoverati in strutture ospedaliere, attraverso l’utilizzo di tecniche del circo e del teatro di strada.
- Si basa sugli studi della psico neuro endocrino immunologia (Pnei) e della gelotologia, che indagano la connessione tra emozioni e salute.
- Diventare clown dottore richiede competenze specifiche (teatrali, psicologiche, scientifiche) che si possono acquisire seguendo corsi di formazione in centri specializzati.
Margherita ha cinque anni quando incontra per la prima volta le clown dottoresse Pistilla e Frittella. Si trova al Centro grandi ustionati dell’ospedale Bufalini di Cesena, è il 2003 e la clownterapia in Italia è ancora poco diffusa. Con il 40 per cento del corpo coperto di ferite, la bambina vive ogni giorno in un loop di ansia, paura e dolore, specie durante le medicazioni e le sessioni di fisioterapia.
“Noi clown dottori ci inserivamo in questo circolo cercando di spezzarlo, per farle vivere momenti di gioco e di allegria”, scrive Azzurra Alexiadis, alias Dottoressa Frittella. “All’inizio l’interazione era minima. Dopo tre incontri, Margherita ha cominciato a interagire in modo collaborativo con noi e con il personale infermieristico, favorendo un’alleanza terapeutica che l’ha portata a un recupero fisico più celere”.
La storia di Margherita (il nome è di fantasia) è simile a quella di tanti bambini, adulti e anziani ospedalizzati che grazie all’intervento dei clown dottori e alla loro terapia del sorriso, possono vivere momenti di leggerezza, preziosi per il corpo e lo spirito. Come spiega Alberto Dionigi, psicologo, clown dottore e co-fondatore dell’Accademia di clownterapia a Roma: “Il nostro obiettivo non è quello di guarire il malato ma di favorire lo sviluppo della parte sana attraverso le emozioni positive”.
Nonostante la letteratura scientifica dimostri in modi sempre nuovi l’efficacia dell’interazione umoristica, di fatto nel nostro Paese questa pratica continua a occupare una nicchia nel sistema sociosanitario. Non esiste nemmeno una normativa ufficiale che regoli la figura del clown dottore. A farne le spese sono quasi sempre i pazienti, privati della possibilità di ricevere un supporto utile durante l’ospedalizzazione o affidati a personale improvvisato. Ma facciamo un passo indietro, e proviamo a rispondere a una domanda frequente: a cosa serve la clownterapia?
I benefici della clownterapia per il sistema immunitario
Comicoterapia, terapia del sorriso, clownterapia. Tre sinonimi, una sola intuizione: la salute dipende dalla felicità. Da qui, negli anni, la definizione di una disciplina che consiste nell’applicare tecniche teatrali e circensi in ambito sanitario per migliorare l’umore dei pazienti, dei loro familiari e accompagnatori e del personale. Con un riverbero rinvigorente, secondo le acquisizioni della psico neuro endocrino immunologia (Pnei), anche sulle funzionalità del sistema immunitario.
In questa visione dell’organismo umano come unità interconnessa, con sistemi psichici e biologici che si condizionano a vicenda, la Pnei studia nuovi approcci non farmacologici alla prevenzione e alla gestione delle malattie. Sottolinea quanto le emozioni incidano sulla regolazione del sistema nervoso, che a sua volta regola la secrezione di sostanze quali cortisone ed endorfina, che a lungo termine influenzano il sistema immunitario. I sentimenti negativi possono portare a squilibri di carattere psicofisico, mentre quelli positivi nutrono una condizione di benessere.
La salute si basa sulla felicità: dall’abbracciarsi e fare il pagliaccio al trovare la gioia nella famiglia e negli amici, la soddisfazione nel lavoro e l’estasi nella natura delle arti.
Come una lente di ingrandimento, un’altra branca della medicina analizza il rapporto tra emozioni e salute: la gelotologia. Ispirata alla Pnei, mette in luce l’importanza della risata ai fini della prevenzione, terapia e riabilitazione.
Questo modo di fare medicina, che si è affermato nei paesi anglosassoni nella seconda metà degli anni Ottanta grazie a medici pionieri come Patch Adams e Michael Christensen, oggi è accettato anche dalla scienza ufficiale, soprattutto grazie ai risultati di numerosi studi che ne dimostrano l’efficacia.
Gli studi su adulti e bambini
Una delle panoramiche più esaustive sul clowning ospedaliero a sostegno del processo di cura è quella messa a punto dalla psicologa Laura Vagnoli (Ospedale pediatrico Meyer Firenze) insieme al dottor Alberto Dionigi (Federazione nazionale clowndottori).
Proprio Vagnoli con la sua equipe ha condotto nel 2005 la prima analisi, considerata emblematica, della presenza dei clown durante l’induzione dell’anestesia, dimostrando una riduzione statisticamente significativa dei livelli di ansia preoperatoria in bambini sottoposti a chirurgia minore confrontati con un gruppo di controllo.
Un altro studio italiano ha coinvolto bambini ospedalizzati affetti da patologie respiratorie: i risultati hanno mostrato una riduzione della sintomatologia patologica, della pressione arteriosa, della frequenza respiratoria e della temperatura ed anche una riduzione del dolore. I benefici dell’interazione umoristica sono sempre più oggetto di studio anche su adulti e anziani, familiari e personale ospedaliero.
“Attenzione però”, avverte la dottoressa Franca Fossati Bellani, pioniera dell’oncologia pediatrica all’Istituto nazionale tumori di Milano, “non commettiamo l’errore di pensare che una risata basti a guarire da una malattia”.
E non confondiamo bolle di sapone e gag con una posa da buontemponi. Prima di indossare il naso rosso, occorre scegliere di essere gentili. Fare clowning ospedaliero significa uscire dall’approssimazione benintenzionata del volontariato per agire con le competenze e le abilità di un membro dello staff medico. In che modo?
Come si diventa operatore del sorriso
“Attualmente non esiste una norma legislativa comune a tutte le associazioni, quindi chiunque può vestire i panni del clown dottore dopo aver frequentato un corso di formazione”, spiega Dionigi. “Un buon corso di formazione dura almeno 150/200 ore”.
Dopo il percorso in aula si passa al tirocinio, così che un dottore neofita sia accompagnato da persone più esperte. “L’Accademia di clownterapia nasce proprio con l’idea di fornire una formazione scrupolosa, mirata e soprattutto scientificamente fondata per far sì che l’operatore che va in una struttura sociosanitaria sia adeguatamente formato, sia dal punto di vista artistico che psicologico. Ci troviamo di fronte a situazioni che possono essere molto gravose e possiamo andare incontro a forti stress quando lavoriamo in ospedale”, conclude.
Lo confermano anche dall’Associazione Veronica Sacchi a Milano: “Essere clown dottore è l’insieme di capacità tecniche e psicologiche. Bisogna conoscere trucchi di magia, come saper ascoltare, leggere fiabe animate, come evitare di portarsi a casa il dolore, per quanto possibile. La formazione serve a questo: a fornire all’operatore tutti gli strumenti necessari. Comprese le direttive sanitarie sul corretto approccio al paziente”.
Pazienti, persone con storie e vissuti diversi, da avvicinare “in punta di piedi”, come ripete spesso Dionigi. Ascoltare con gli occhi, abbracciare con la voce, comprendere il dolore, rispettarlo. Trasformare la disperazione in speranza, la noia in meraviglia. Poteri magici della flebo e bolle di sapone che non scoppiano, come racconta il bellissimo documentario “Clown in corsia”.
C’è anche una bimba avvolta nelle bende e il pensiero va a Margherita: che fine ha fatto? Due anni in ospedale, finalmente la guarigione. “Adesso mi capita di incontrarla in giro per la città e quando ci salutiamo sento che un affetto particolare ci lega ancora”, ha raccontato una volta la dottoressa Frittella. Forse, le piace credere, si è realizzato davvero il detto che la sofferenza condivisa è un po’ meno sofferenza.
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